Neanche il nome di Alda Merini, snocciolato tra i tanti nel rosario di poesia antica e moderna che Giancarlo Giannini propone nel suo Le parole note – Viaggi e miraggi, ridesta il pubblico da un torpore borghese e cortese: proprio la poetessa milanese, recente simbolo da cartolina di un’Italia che ha voltato da anni le spalle alla magia del verso, in altre occasioni avrebbe regalato almeno un segno di approvazione, un sorriso di gradita soddisfazione. Qui solo silenzio: avanti un altro. Si apre con Salinas, si procede con Poliziano, Neruda, Dante: come in un’antologia letta a saltare tra lo stupore di un titolo o la madeleine di un verso fulminante che si era fatalmente dimenticato. Non è un caso che gli applausi del Vittorio Emanuele arrivino con il Leopardi di A Silvia, o con S’i’ fossi foco di Cecco Angiolieri: è il gioco delle reminescenze scolastiche di un pubblico composto da più laureati che laureandi, con quell’effetto nostalgia in agguato per lenire una noia sempre incipiente.
Il mestiere dell’attore che sceglie un percorso classico, serio, quasi fortificato, per incontrare la seduzione del palcoscenico. Mestiere vivo, cristallino se è il caso: la lettura vibrante, l’interpretazione efficace, la scelta dei tempi non cede di un millimetro dalla perfezione. Entusiasmo poco e vago, ravvivato dalla trascinante esibizione del Marco Zurzolo Trio, note jazz e blues che via via spostano il baricentro da mero accompagnamento a fulcro della serata, oltre ogni inconveniente di natura tecnica. La verità sta nel mezzo, Giannini è attore troppo esperto per andare fuori tema: proseguono i versi, da Montale si passa a De Filippo, Shakespeare, Ungaretti, si esalta la donna e l’amore, con garbo si procede fino al bis.
Lo splendore di un nome apre scenari inimmaginabili: Giannini non può deludere le attese. Impossibile per un professionista della sua esperienza, inverosimile con uno spettacolo così pianamente inattaccabile.
Domenico Colosi