MESSINA – Recuperare il surreale, il metafisico che abbiamo dimenticato: questo è l’imperativo dei protagonisti di “Non siamo qui”. Lo spettacolo, scritto e diretto da Tino Caspanello, con Cinzia Muscolino e Tino Calabrò – produzione Statale 114, Compagnia dell’Arpa, Teatro Pubblico Incanto, distribuzione Latitudini – è il prossimo appuntamento della stagione del Teatro dei 3 Mestieri “Mi presento così”. Da venerdì 1 a domenica 3 dicembre, a Messina.
“Non siamo qui” è una fuga dal luogo comune alla ricerca di un altrove in cui risieda ancora un’autenticità; al tempo stesso è un viaggio tra forme e aspetti diversi del teatro, della realtà e di noi stessi.
Ne abbiamo parlato con Tino Caspanello. Nato a Pagliara, in provincia di Messina, il drammaturgo, regista, attore e narratore messinese ha raggiunto, con la sua arte, tutto il mondo.
Cosa dobbiamo aspettarci da “Non siamo qui”?
Tante cose. È uno spettacolo che mette insieme tante possibilità, diversi modi di fare teatro. È una sorta di compendio che sembra davvero un viaggio tra cabaret, avanspettacolo e un teatro che riflette ancora oggi su se stesso e sulle possibilità di vivere attraverso la sua arte una vita autentica.
“Non siamo qui” racconta una ricerca del surreale e del metafisico quale unico altrove pieno di senso, contro una realtà immanente che è, invece, alienante. Rappresentano, quindi, il sogno, l’arte, il surreale non un’alienazione dalla realtà quanto, piuttosto, una sua vera invasione? Diventano l’unico strumento atto a comprenderla davvero?
Ho veramente la sensazione che le arti siano gli unici mezzi che abbiamo – e che spero avremo sempre – per comprendere oggi il reale. Lo fanno attraverso la metafisica di cui sono composte, che non è il guardare oltre il mondo, ma guardare oltre la mera e superficiale, a volte, fisicità del mondo. Abbiamo bisogno della metafisica per comprendere all’interno le nostre strutture mentali ma anche la nostra capacità di relazionarci con il fuori e con noi stessi.
Ma come affidarci alle arti in una società che non sembra difenderle o tutelarle? Lo spettacolo è dedicato ai sognatori, ma come continuare ad avere il coraggio di sognare qualcosa di Altro dinanzi all’inautenticità del nostro reale? Come non soccombere?
Dovremmo recuperare il nostro rapporto con quella dimensione che i media escludono: con la nostra capacità immaginifica, con quell’immaginario di cui noi siamo costituiti. Noi nasciamo da un atto immaginario: l’immaginario dell’innamoramento. Oggi l’abbiamo sacrificato per degli schermi in cui sono solo quelle immagini a comporre il nuovo immaginario quotidiano. Questo è un danno enorme. Ma possiamo ancora ritrovarlo grazie al teatro, alle arti, alla musica, all’arte visiva. Grazie ad essi possiamo recuperare le nostre capacità ri-creative.
Tanti sono gli elementi che si fanno protagonisti della sua drammaturgia; c’è qualcosa che, invece, sa specificatamente di non voler trattare nel suo teatro?
Non credo, perchè un po’ in maniera chiara e lineare, alla luce della scrittura e della messa in scena, e un po’ sottotesto e sottotraccia, ho affrontato tutte le tematiche che agitano un possibile progetto di drammaturgia. Dalla violenza fisica – penso a “Malastrada”, dove scoppiava una violenza all’interno del nucleo familiare, tra madre, marito e figlio – alla violenza verbale, alla follia, all’abbandono. Ci sono tante cose dentro la mia drammaturgia e tante sono ancora solo dentro la mia scrittura. Molti miei testi sono pubblicati – grazie ad Editoria&Spettacoli, cui non smetterò mai di esser grato – ma devono ancora trovare la loro forma scenica.
Nel 2023 la sua compagnia “Teatro Pubblico Incanto” ha compiuto trent’anni. Il vostro lavoro e le sue opere hanno avuto un successo incredibile in tutto il mondo, da Parigi a Hong Kong. Qual è, se c’è, il ricordo più bello? E poi, una curiosità, come nasce la scelta di questo nome per la compagnia?
Il nome nasce grazie a Cinzia Muscolino, ha avuto lei l’illuminazione. Deriva dal fatto che l’incanto non può essere privato, se non è condiviso con il pubblico non ha senso. Ricordi ce ne sono talmente tanti e tutti di grande affetto da parte delle persone che ci accolgono e ci hanno accolto, mettendo a disposizione ogni loro strumento. Da Hong Kong, dove nonostante le difficoltà per la lingua diversa – supplite ovviamente dall’inglese – ci hanno accolto in tutti i modi, fino alla Polonia e a Parigi dove, ultimamente, è stato presentato un testo che ancora in Italia non è andato in scena e si trova nel volume dedicato al silenzio. I ricordi sono veramente tanti, non ce ne è uno che supera gli altri.
Avendo creato, fatto, vissuto il teatro nel corso di questi anni, e assistito a tutti i suoi cambiamenti, cosa pensa possiamo attenderci dal suo futuro, che prospettive ha per il futuro del teatro?
Sul nostro futuro non lo so, perchè quando un progetto parte sembra non dover avere mai una fine, anche quando pensi di aver concluso un percorso sai sempre che quella conclusione è, in realtà, un nuovo punto di partenza. Se prendiamo per esempio la mia scrittura, questa ha delle vie che ho percorso e che hanno trovato una maturazione in due, in tre, in quattro testi. E lì c’è un punto. Non ho mai ripetuto una formula, ho sentito la fine, la morte di una possibilità, ma al tempo stesso ne ho percepito l’inizio di tante altre. Davanti ti si aprono strade che devi percorrere per sviluppare un nuovo modo di vedere, di scrivere, di immaginare la scena. Il futuro del teatro, invece, oggi non riesco a percepirlo in maniera chiara, un po’ di tempo fa avevo tante linee guida, riuscivo ad orientarmi meglio su tanti modi di fare teatro, adesso ho una maggiore difficoltà a percepire il domani. Soprattutto con un’esperienza alle spalle che non ha aiutato il teatro, gli ha permesso, anzi, dei tradimenti che hanno fatto molto male. Sicuramente il teatro ha bisogno di tornare in mezzo alle persone. Alle volte ho la sensazione che si ritragga in luoghi in cui la gente ha difficoltà ad entrare, su certe torri d’avorio che al teatro non fanno bene. Non ha bisogno di mediatori, ha bisogno di una comunicazione reale con il pubblico, un contatto tra artisti e pubblico. Tutto il resto rischia di creare una cesura e una censura e questo è un discorso che si estende soprattutto alla formazione del pubblico. Ma come si fa a formare un pubblico, quando la scuola e la didattica vanno in tutt’altra direzione? È un grande punto interrogativo.
Tornando ad oggi invece, per concludere, “Non siamo qui” è in scena, da venerdì 1 a domenica 3 dicembre, al Teatro dei 3 Mestieri. Dalla scoperta del mondo al rientro a casa. Il vostro è un sodalizio di lunga durata. Qual è l’emozione di portare qui, ancora una volta, un vostro lavoro?
L’emozione di lavorare nella propria terra è sempre grande. Debuttare qui a Messina aggiunge un entusiasmo e un valore in più al nostro lavoro. Questo spettacolo è l’ulteriore conferma di un forte legame con Cinzia Muscolino e Tino Calabrò, i due attori con me in scena. Con Cinzia è consolidare un rapporto ormai trentennale, con Tino un sodalizio non soltanto artistico ma umano, un’amicizia con la quale si condivide il pane quotidiano. In scena è percepibile lo scambio autentico che noi abbiamo. Lo spettacolo è una riflessione sul reale, parte in un modo per convogliare, poi, tutte le energie in una domanda finale che lascia aperta la porta verso ulteriori riflessioni, non solo sul teatro ma anche sulla vita che ciascuno di noi sta costruendo al di fuori di esso.
E affiderà, allora, la risposta a queste domande al suo pubblico o la cercherà in nuovi testi?
Lasciamo le domande al pubblico, vanno tutte consegnate al pubblico, il teatro deve fare questo per suo statuto.