Attraverso Un gioco da grandi Benjamin Markovits racconta un anno, o meglio una stagione, della propria vita decisamente inaspettata e sorprendente.
Figlio di un ebreo americano di origine bavarese e di una tedesca cristiana – conosciutisi poco dopo la fine della seconda guerra mondiale –, Ben, nato in California nel 1973, ha ereditato dal padre, più che la fede religiosa, la passione per lo sport. Passione però non accompagnata da un talento cristallino. Nonostante l’altezza elevata e le ore passate ad allenarsi, infatti, nella squadra di basket del liceo Ben trascorre quasi tutte le partite in panchina.
Arrivato all’università, smette di giocare, concentrandosi sulla letteratura. Vorrebbe fare lo scrittore, ma sa quanto sia difficile mantenersi scrivendo; pensa che sia più facile riuscirci con il basket.
Un amico mi fece qualche ripresa mentre mi allenavo, tirando e schiacciando da solo. È tutto lì il curriculum che inviai, insieme a una piccola ma decisiva informazione: mia madre era tedesca, e questo consentiva di aggirare le quote di stranieri fissate in Europa. Mentre i miei compagni aspettavano con ansia le risposte alle domande di ammissione a master e dottorati in Legge o Medicina, io uscivo dall’ufficio del preside in una ventosa giornata di marzo con le quattro paginette di contratto che un agente aveva appena inviato via fax, basandosi sul mio video.
L’autore di Un gioco da grandi passa l’estate seguente girando per la Germania e sostenendo provini per varie squadre, finché a fine luglio trova lavoro a Landshut, a nord di Monaco, nella squadra locale che milita in seconda divisione.
Circa un mese dopo, Ben torna quindi a Landshut per iniziare la preparazione in vista della successiva stagione sportiva. Stagione di cui Un gioco da grandi non offrirà una mera cronaca. Pur basandosi su un’esperienza reale dell’autore, infatti, l’opera è un romanzo, che porta in epigrafe una citazione di Byron che spiega molto:
E poi detesto le opere di sola fantasia […]. Perfino nella costruzione più eterea dovrebbe esserci qualche fondamento di realtà, e la pura invenzione non è che il talento di un bugiardo.
Benché l’autore non lo dica esplicitamente, la stagione raccontata dovrebbe essere la 1994/95. In quel periodo, la seconda divisione tedesca è una lega per lo più semi-professionistica. I giocatori delle varie squadre ricevono un rimborso non tale da fare del basket la loro unica fonte di sostentamento. Di conseguenza, la loro presenza ad allenamenti – in genere tre a settimana – e partite dipende dagli impegni del “vero” lavoro di ognuno.
A Landshut la situazione è diversa. Henkel, l’allenatore, ha convinto la società a compiere uno sforzo per puntare alla promozione. In un modo che sembra assurdo a lui stesso, Ben, che non vestiva una divisa da gioco dai tempi del liceo, si ritrova a fare la vita del professionista, con due sessioni di allenamento al giorno, mattina e sera.
Gli stipendi di Ben e degli altri giocatori del Landshut sono più simili a quello di un impiegato che a quelli dei grandi campioni dello sport, ma, a prescindere dalla dimensione economica, i personaggi di Un gioco da grandi sono perfettamente consapevoli di dove si trovano. Sportivamente parlando, la seconda divisione tedesca è un vero limbo, e il fatto che la città di Landshut abbia molto poco da offrire aumenta la sensazione di una tappa di passaggio.
In squadra, un paio di cestisti sono nella stessa situazione di Ben – giocano per guadagnare qualcosa e vivere un’esperienza insolita ma i loro veri progetti non contemplano il basket –, ma tutti gli altri hanno puntato, e continuano a puntare tutto sullo sport. Naturalmente, visto che al momento giocano a Landshut, qualcosa non ha funzionato, e il desiderio di farcela si respira in modo tangibile dentro il palazzetto, insieme al timore che non succeda.
Hadnot è un tiratore quasi infallibile, ma ha già trent’anni, le ginocchia malconce e la fama di essere pigro e indolente; Charlie è un talento di terz’ordine a cui piace comandare; Milo sarebbe un ottimo difensore, aggressivo e prestante, ma in partita perde completamente la testa; Olaf ha già assaporato la prima divisione, e la sensazione di affrontare giocatori troppo forti per lui.
Per ognuno di loro i punti di debolezza sembrano più marcati di quelli di forza, con una eccezione: Karl gioca in seconda divisione solo perché è giovanissimo, ma sanno tutti che è troppo forte per restarci a lungo (sul suo personaggio rimane un piccolo mistero. L’autore stesso spiega di usare per lui un nome di fantasia, in quanto nella realtà l’ex compagno è ormai diventato troppo famoso e potrebbero sorgere complicazioni legali. Tutto porterebbe a pensare che Karl sia Dirk Nowitzki, protagonista in NBA, eletto MVP della stagione regolare 2006-2007 e delle Finali NBA 2011, vinte dai suoi Dallas Mavericks; nel ’94/’95 Nowitzki giocava proprio nella seconda divisione tedesca, però non con il Landshut ma con i loro diretti avversari). Bisogna aggrapparsi a lui per arrivare in prima divisione, ma ognuno, anche un panchinaro come Ben, dovrà fare la propria parte.
L’autore de Un gioco da grandi, infatti, guarderà buona parte della stagione dalla panchina. Questo non solleticherà il suo ego cestistico, ma gli darà modo di seguire la storia del Landshut e dei suoi membri da una postazione privilegiata. Dalla panchina, però, Ben non segue soltanto la partita.
Non che sia disinteressato. Scrivere rimane il suo piano nel lungo periodo, ma rispetta il contratto sportivo con serietà. Ci tiene a giocare bene quando viene chiamato in causa, ci tiene che la squadra vinca, eppure non riesce a evitare che nella sua mente le immagini che ha davanti si confondano con altre, provenienti dal passato, o del tutto inventate.
Le riflessioni di Ben su se stesso, sugli altri, sulla vita a trecentosessanta gradi occupano gran parte della sua stagione tedesca, anche perché la fine dell’allenamento mattutino e l’inizio di quello serale sono separate da otto lunghe ore, che Ben tende a passare solo, girando a piedi o in bicicletta, o scrivendo al pc. L’incontro con Anke, ex moglie di un suo compagno di squadra, ridurrà la sua solitudine ma gli fornirà molto altro su cui ragionare.
La sensibilità del punto di vista del narratore non porta Un gioco da grandi, però, ad essere un’opera statica. Molto interessanti sono gli incontri con i compagni – e non solo – fuori dal campo, e i dialoghi offrono al lettore un confronto tra esperienze e culture diverse. L’autore dimostra di saper trattare i personaggi con equilibrio. Non è eccessivamente indulgente nei loro confronti, non manca di mostrarne i lati sgradevoli, ma ad accompagnarlo è sempre la curiosità del comprendere l’altro, senza stare su un piedistallo e rispettandone la storia alle spalle.
Un gioco da grandi è una lettura perfetta per chi ama lo sport ma non ama solo lo sport, ed è convinto che partite, allenamenti, regole e tattiche siano una onesta ed avvincente rappresentazione di tutto ciò che può capitare nel corso della vita.