teatro

Un tram che si chiama desiderio: il lato oscuro del grande sogno (americano)

Il 3 dicembre, nel 1947, all’Ethel Barrymore Theatre di Broadway, New York, debuttava l’opera in tre atti di Tennessee Williams, datata 1947, Premio Pulitzer lo stesso anno per il miglior dramma, che da quella prima mise en scene è ancora fulgida, nonostante i tre quarti di secolo intercorsi.

L’America anni 40 e il suo lato oscuro, ancor oggi attuale, vengono denudati con integrale crudezza. In una New Orleans, che potrebbe somigliare- e somiglia – a qualunque città del mondo, in un tempo sospeso – che solo incidentalmente, attraverso l’ambientazione e i costumi, viene declinato quale non coincidente con quello del tutto contemporaneo allo script, e diverso anche dal mondo odierno – la convivenza casuale di uno strano nucleo familiare deflagra in tragedia.

L’atmosfera noir è tutta in nuce già “ab initio”, con Blanche che sin dalla prima scena appare nelle sue estreme fragilità…una falena che si è troppo avvicinata alla luce, una pietra preziosa ma assai delicata che ove non maneggiata con estrema cura…può andare in pezzi facilmente.

Blanche Dubois, vedova, ex professoressa d’inglese, è costretta ad abbandonare una cittadina del Mississippi (e la tenuta familiare di Belle Reve) per motivi che parrebbero sì traumatici, ma accidentali, che si rivelano nella dura realtà solo verso la fine della rappresentazione. Si rifugia allora dalla sorella minore, Stella (a New Orleans) che è coniugata ad un uomo prestante ma assai rozzo e intriso di volgarità, di origini polacche, Stanley Kowalsky.

Fra i due cognati (per caso davvero) si instaura da subito un incandescente clima reciproco di attrazione – repulsione, che la c.d. ninfomania di cui è affetta Blanche rende presto assai periglioso, tenuto conto della bassezza morale e del machismo di bassa lega di Stanley, che proverà prima a soggiogarla psicologicamente e in seguito a liberarsene, riuscendo ad allontanarla dal proprio ambiente domestico, così recuperando il falso rapporto con la debole e convenzionale Stella.

A nulla potrà valere allora l’incontro di Blanche con il più gentile e affidabile Mitch, amico di Stanley, pur se sulle prime sembrerebbe foriero per lei di una potenziale rinnovata esistenza.

Anche questo sogno è destinato a infrangersi, la speranza a naufragare, in uno al desiderio d’amore quale riscatto identitario.

Tematiche d’ordine quali l’omosessualità, il maschilismo, la ninfomania, il disagio psichico, la rigidità degli schemi sociali, la malattia mentale, insieme al razzismo – che appare altresì connotante – sono ai nostri tempi ancora irrisolte e drammaticamente attuali, e ciò può spiegare agevolmente la collocazione della performance in uno spazio – tempo per lo più sfumati e simbolici.

Se già l’assoluta qualità del testo ne garantiva una base solida di successo, questo adattamento teatrale, nella felice traduzione di Masolino D’Amico, diretto magistralmente dal valente Pier Luigi Pizzi, che si è altresì occupato della realizzazione delle scene e dei costumi, è un valore aggiunto, che le interpretazioni superbe, in primis dell’intensa e magnetica Mariangela D’Abbraccio – alla quale i panni di Blanche paiono adattarsi alla perfezione – ma anche di Daniele Pecci- davvero convincente in un ruolo pietra miliare del mondo teatrale e anche di quello cinematografico, alle prese con un modello di perfezione assoluta in ambo i settori, quale la stella americana Marlon Brando- impreziosiscono vieppiù la rappresentazione.

Di certo anche la D’Abbraccio si è dovuta cimentare nel confronto con la resa cinematografica della immensa Vivien Leigh, vincitrice del Premio Oscar per la Migliore interpretazione nel 1951, data di uscita della pellicola con la regia di Elia Kazan.

I personaggi di Mitch, Steve, Pablo e Eunice, hanno parimenti avuto una ottima resa interpretativa, pur se, in linea con lo script, solo il primo di essi risulta delineato compiutamente, con gli altri di contorno.

Il dominatore Stanley, essere primitivo e quasi primordiale, in attesa di un erede dalla mite e passiva Stella, saldamente ancorata alla realtà, si trova alle prese con le inquietudini di Blanche, educata al bello e alle arti, contraddittoria e sognatrice, apparsa ex abrupto nelle loro vite, che sotto la scorza sofisticata ed elegante, cela le dipendenze dall’alcol e dal sesso e una storia di sofferte vicissitudini.

Il tram dal suggestivo nome “Desiderio”- ove nomen è omen – che la conduce nella dimora della coppia, la costringerà a mettere la sordina alle sue fantasie ed a scontrarsi con la caduta del velo che farà emergere, tramite il cognato e le sue bassezze, le sue desolanti traversie…la giovanile vedovanza causata dal suicidio del marito Allan -che definisce un ragazzo – consequenziale alla rivelazione di Blanche di aver saputo della sua omosessualità – e il più recente allontanamento dall’Istituto scolastico per la scoperta della sua relazione con uno studente minorenne… solo punta dell’iceberg di altri socialmente ”poco idonei” comportamenti che la bigotta cittadina (di Auriol) non le ha perdonato, con connessa “scomunica”.

La resa dei conti con la violenza sessuale di Stanley a Blanche, per essere stato a sua volta dalla stessa smascherato agli occhi della moglie, sarà causa del suo internamento in manicomio.

Stella, nella mise en scene attuale accetterà anche l’ennesimo colpo infertale da quel marito maschilista ancora amato, e accettato nonostante la sua villana e crudele arroganza, e non si allontanerà da casa con il loro bambino intanto venuto alla luce..e questo differente esito rispetto al testo cinematografico, deve mettersi nella giusta evidenza, poiché fa venir meno anche quel minimo di luce possibile evocata, calcando la mano sugli effetti della violenza domestica, anche ai nostri giorni  tanto difficile da estirpare, e contro la quale i meccanismi di resistenza sono complessi e durevoli nel tempo.

Un dramma immortale, che il compianto Luchino Visconti portò sulla scena in prima versione italiana a Roma nel 1949 al Teatro Eliseo, con M. Mastroianni e V. Gasmann, con la scenografia di F. Zeffirelli, a ennesima prova del suo fascino ammaliante.

L’odierna rappresentazione non ha nulla da invidiare a quella prima italiana, mantenendo viva la potenza performativa e l’incanto poetico di generazioni che allora come ora si specchiano e non si trovano di certo piacevoli..

Eros e Thanatos anche qui si contendono, con le contrapposte pulsioni, il campo esistenziale, rendendo parossistiche le azioni dei protagonisti.

Blanche è ben tratteggiata e resa… una creatura pura che, dopo il suicidio del marito nelle tragiche circostanze cennate, ricondurrà sempre l’amore alla morte, trovando solo fittizia e temporanea pace nell’illusione e nei vaneggiamenti, con rifiuto di una realtà che proprio non le piace, e dovrà soccombere alla crudezza di Stanley, con connesso crollo psicologico, che la condurrà al ricovero all’ospedale psichiatrico, ove sarà condotta da un gentile personaggio maschile, al quale si affiderà, ritrovando, in contrapposizione alla violenta e spiccia concretezza dell’infermiera, un referente maschile che può ben simboleggiare la ricerca di quell’accudimento che di sicuro la protagonista non ha mai avuto.

Nel dramma di T.Williams siamo ancora lontani dalla rivoluzione femminista dei tardi anni 60 e  il grande drammaturgo dunque è stato maestro precursore nell’indagare per la prima volta, forse, la psicologia femminile con un ritratto lucido e cupo della fragilità e del dramma della memoria che può segnare irrimediabilmente, questa piece in scena al Vittorio Emanuele, invece, è calata in un tempo volutamente sospeso(che per certi rimandi, alcuni costumi indossati da Blanche e suoi accessori, la stola di piume rosse, il collo di volpi bianche, così come per la collocazione del telefono a parete e le divise del personale sanitario, potrebbe essere più o meno coincidente con quello del testo, mentre per il grigio loft dell’ambientazione, come per gli abiti di Stella è sicuramente meno datato, anche se, forse, non attuale) volendo, a mio avviso, significare che le problematiche denunciate allora non hanno trovato alcuna soluzione, incancrenendosi, anzi. E se nell’originario testo  la stessa borghesia sudista, oramai al declino, è protagonista indiscussa, attraverso la sua eroina decadente( e decaduta), in questa riscrittura, solo in apparenza molto fedele, Blanche, “la Bianca”, e Stella, “la Abbagliata”, verrebbe da dire…sono entrambe vittime senza soluzione del desiderio, che può rintracciarsi quale collante e fil rouge dell’odierna piece, che oggi come allora fa viaggiare simbolicamente i suoi personaggi lungo un percorso accidentato, che da duro realismo sfocerà in tragedia per la protagonista, cristallizzando altresì nell’assenza di soluzioni il rapporto malato fra Stanley e Stella, con il maschio rapace e predatorio vittorioso sulla sua vittima, senza quello sprazzo di speranza come nello script di Williams.

In conclusione, non si può che riconoscere il livello di eccellenza della rappresentazione, e sotto gli aspetti della trasposizione, e della direzione, e per le maestose interpretazioni – di una altamente ispirata d’Abbraccio, con una Blanche che sembra costruita sulle sue corde-e del polacco bevitore, manesco, dedito al gioco e senza scrupoli (e luce), reso magistralmente odioso da Pecci. Volutamente in ombra gli altri personaggi, dagli amici, due uomini spesso al tavolo da gioco, impersonati da Gabriele Anagni e Massimo Odierna, e una ragazza che sembra “di casa”, Erika Puddu, con le eccezioni di Stellalavittima e del buonMitch, che soccombe però al perbenismo societario che non lascia scampo, con le consone rispettive interpretazioni di Giorgia Salari e Stefano Scandaletti. Stupende le musiche di Matteo D’Amico, giustamente sincopate e di sicuro volutamente ispirate all’epoca originaria, cosi come di spicco il taglio di luci, parimenti di caratterizzazione non contemporanea, da riferire all’Artigiano della luce, Luigi Ascione.

In replica domenica alle 17,30. Se ne consiglia caldamente la visione, e di certo sarà di nuovo un gran successo come per la serata di sabato, che il copioso pubblico ha mostrato, nel lungo percorso, di ben due ore e 30 significativamente ininterrotto per non sospendere il pathos generato, di gradire alquanto, tributando ovazioni in ispecie alla superba protagonista.