REGGIO CALABRIA –«Chest’è ‘na malaterra».
Cupissima aria di Calabria “profonda” e di recriminazioni e di ambienti malavitosi e di riscatti improvvisi, nell’opera prima del regista Francesco Costabile, il lungometraggio Una femmina, – presentato ieri sera alla 72esima edizione del Festival del cinema di Berlino nella sezione “Panorama”, girato a Verbicaro, piccolo centro nell’area del Pollino, e tratto dal libro Fimmine ribelli dello scrittore e vicedirettore dell’Espresso Lirio Abbate, palermitano di Castelbuono – per molti versi si potrebbero sintetizzare così. Nella frase amarissima che la giovane Rosa rivolge all’amato Gianni.
In realtà c’è questo e molto di più, in un film che sotto vari aspetti ricorda Anime nere, il film di Francesco Munzi tratto dall’omonimo romanzo dell’africese Gioacchino Criaco.
Per esempio, per il cruciale ruolo della famiglia nella narrazione dipanata intorno alle ‘ndrine, al loro potere pervasivo e corrosivo: «O cu’ nui, o cu’ igghji», è la scelta senza speranza che nonna Berta, al telefono, mette davanti a sua figlia Cetta, la mamma di Rosa, personaggio appena intravisto eppure autentica chiave di volta del film e dell’insperata riscossa della giovane. Nel nome e in quanto “suicidata” facendole ingerire acido muriatico, il personaggio è sagomato sulla “pentita” di ‘ndrangheta rosarnese Maria Concetta Cacciola, insieme a Lea Garofalo e poche altre autentica icona al femminile della ribellione anti-‘ndrangheta.
Naturale richiamarsi ad Anime nere guardando a Fabrizio Ferracane – attore trapanese di Mazara del Vallo – che, stavolta nei panni del “cattivo”, inanella un’altra prova d’attore maiuscola. E anche in questo caso c’è un’anziana donna immagine dell’èpos e delle cruente contraddizioni e contrapposizioni della criminalità organizzata calabrese, una magnifica Anna Maria De Luca.
Fotografia e scorci d’eccezione, quelli presentati nel film di Costabile – nel 2006 vincitore del Nastro d’argento per il suo cortometraggio Dentro Roma –.
E anche qualche luogo comune, perché no? Don Ciccio, giovane boss rampante raffigurato dalla “maschera” e gli occhi strabuzzati di Vincenzo Di Rosa, invita al silenzio sottolineando che «’A megghiju parola è chiddha che nun nesci», frasario mafioso vecchio di mezzo secolo a fronte di un panorama ‘ndranghetistico reale che porta quotidianamente tonnellate di cocaina dall’America Latina ai mercati europei. Tutti i personaggi parlano esclusivamente e, diremmo, ostentatamente in dialetto. Al netto del percorso verso la libertà, la donna “media” in Calabria viene presentata come succube nerovestita (magari, fino al momento di togliersi insieme a tutte le altre il velo e, metaforicamente, la benda davanti agli occhi).
Però la protagonista Lina Siciliano – di Cariati ma ormai “trapiantata” a Napoli, cresciuta in una casa-famiglia, neomamma del piccolo Luca -, pur non attrice professionista, sfodera un’intensità da coltivare come un seme prezioso per il bene non solo suo ma del cinema italiano.
Si conferma poi nei panni di Natale – cugino di Rosa – il messinese Luca Massaro.
Difficile considerare Una femmina un film adatto a chi ama il ritmo incalzante, ma di certo un’opera da guardare con la massima concentrazione e l’insegnamento che il riscatto della “malaterra” non può che passare per la verità.
Lo zio apparentemente pronto a sacrificare la nipote, intimidazioni efferate come una testa mozzata di maiale o l’incenerimento della salma del boss rivale sono “segni” – quasi rituali – pescati dai più degradanti e frequenti episodi di cronaca. Avvince risalire il fiume carsico di una lentissima, costante, progressiva ricerca della verità da parte di Rosa: sulla morte della madre – uccisa quando lei era solo una bambina –, sugli opprimenti silenzi nella sua famiglia, sì. Ma soprattutto la verità su una Calabria “nera” che può essere redenta.