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Untore Aids condannato a Messina, l’avvocata poteva essere salvata. Nella sentenza la cronaca di una morte annunciata

MESSINA – L’avvocata messinese poteva essere salvata. E’ stata stroncata dall’Aids reso incurabile dal fatto che il contagio risaliva a diversi anni prima la diagnosi, la sua situazione era già troppo grave quando è iniziata la cura. Poteva essere salvata. Se l’uomo che l’ha contagiata si fosse preoccupato, sapendo che stava male, di rivelarle di essere sieropositivo, di avere avuto una compagna ammalata, una figlia nata positiva. Cosa che ha taciuto fino alla fine, invece. Contagiando anche le altre donne incontrate negli anni. Almeno 4, scrivono i giudici della corte d’assiste di Messina.

La citazione letteraria non è casuale

Le 129 pagine di motivazioni della sentenza che condanna a 22 anni di reclusione il messinese accusato di aver contagiato 4 donne, provocando la morte di almeno una di loro, non è solo un duro atto di accusa giudiziario. Puntellato di argomentazioni giuridiche puntualissime, tipiche delle sentenze dei collegi presieduti dal giudice Massimiliano Micali, il provvedimento si legge come un romanzo. Un tragico romanzo, la cronaca della morte annunciata di una giovane donna strappata alla vita, e a suo figlio che cresce, non dall’Aids; quella è solo la patologia finale. Ma dalla malattia di cui ancora molti uomini soffrono: l’istinto predatorio di prendere tutto dalle donne senza rischiare nulla, senza neppure preoccuparsi se le espongono al rischio della morte.

Spiegando perché è stato riconosciuto colpevole, i giudici chiariscono perché e come il processo ha permesso di stabilire che era stato proprio lui a contagiare la ex compagna, perché è stato dolosamente colpevole di aver taciuto la sua sieropositività, perché certamente era a conoscenza della sua malattia. Ripercorrendo le testimonianze delle donne che hanno conosciuto “l’untore”, intrecciando le loro esistenze con la sua, in varie città italiane,  ricostruendo la testimonianza della sorella e delle amiche della vittima, i giudici tracciano anche gli ultimi anni di vita dell’avvocata messinese.

Il silenzio colpevole di un uomo predatore

“Stava malissimo, era magrissima, ad un certo punto ho visto che si stringeva la cintura…ha fatto due giri…era diventata la metà”, racconta la sorella parlando dei primi campanelli d’allarme, nel 2015, quando le condizioni della donna fanno pensare ad un brutto male: un repentino dimagrimento, una drastica riduzione dei globuli bianchi, continue patologie e disturbi….e il dubbio, quando le prime patologie gravi vengono escluse dalle prime analisi: è Aids? Un dubbio fugato però dalla risposta dell’ex compagno, l’unico col quale la donna aveva avuto rapporti di un certo tipo, negli anni: no, nessun rischio di contagio. C’è voluto un altro anno intero perché i medici diagnosticassero l’Aids alla giovane avvocata. Mai, in questo anno e neppure dopo, l’ex compagno rivelò di essere sieropositivo. Eppure, scrivono i giudici in base a quello che è emerso al processo, proprio lui era il padre della prima bambina nata da madre sieropositiva che ha partorito a Messina, negli anni ’90. Lo hanno testimoniato i medici che l’hanno presa in cura in ospedale.

La bambina era nata positiva, si era poi negativizzata qualche mese dopo. La madre invece è morta qualche anno dopo. Di questa donna, la prima ex compagna dell”untore”, le diverse donne da lui incrociate negli anni successivi hanno saputo qualcosa: era la madre scomparsa della figlia di cui lui si prendeva cura, e ad ognuna delle compagne successive ha raccontato una cosa diversa, sul come era morta, tacendo sempre e comunque che era sieropositiva.

Al processo sono venuti fuori altri dati allarmanti: a meno che non era messo alle strette, forse soltanto in un caso, il messinese ha chiesto alle sue partner rapporti non protetti. Poi i giudici ripercorrono un episodio che secondo la Corte è la “prova regina” dell’atteggiamento colpevole dell’uomo: qualche anno dopo la nascita, il figlio avuto con l’avvocatessa si ammala. Lui, in causa con la ex compagna per la custodia del bambino, le chiede anche formalmente di sottoporre a test specifico per l’Aids il bambino. E lei lo fa, e il bambino è negativo. Alla fine si rivelerà soltanto una banale influenza infantile. E’ una confessione? Secondo i giudici no, tanto che la donna, invece, non si controlla: la freddezza impassibile con la quale lui chiede di sottoporre il figlio al test, la causa contestuale, fanno pensare a lei che quella “rivelazione” è soltanto un’altra schermaglia pretestuosa.  Per i giudici è però la prova, insieme alle altre (le testimonianze, le cartelle cliniche) che l’uomo era invece perfettamente a conoscenza della sua malattia. Da anni, e per anni l’ha tenuta nascosta, a tutte, chiedendo di avere rapporti non potetti. Ma soprattutto l’ha nascosto alla ex compagna messinese, anche quando lei si è ammalata, anche mentre lei si consumava nei letti d’ospedale, anche mentre lei si spegneva, giorno dopo giorno, divorata da un nemico sconosciuto.

Il pregiudizio anche tra i medici, HIV questo sconosciuto

Nelle pieghe della sentenza c’è poi un altro passaggio interessante, significativo di là del dato processuale. Accennando al processo parallelo che riguarda il ruolo dei medici che non diagnosticarono per tempo la malattia, uno degli esperti chiamati a relazionare spiega che, ancora oggi, anche tra i medici, c’è una sorta di “pregiudizio” nei confronti dei sieropositivi, nel senso che non si pensa a cercare l’Aids tra le possibili patologie se il paziente non si presenta come un soggetto “a rischio”. Un pregiudizio di cui è rimasta vittima anche l’avvocata messinese. “Credo, e mi dispiace moltissimo perché stiamo parlando della mamma di un bambino di 8 anni, che sia stato penalizzata, come sarebbe stato penalizzato lei o me, che uno dice no, perché l’HIV, a questo non glielo chiedo…e invece tutte le persone che hanno rapporti sessuali nella vita…mi fa pensare che un po’ abbiamo fallito..io sono nel direttivo della Società Italiana di Malattie Infettive, scrivo le linee guida europee, sono rappresentante europeo dentro la società mondiale, ho fatto dell’HIV la mia vita, vedere che ancora colleghi..non chiedono l’HIV…”