La qualità della classe dirigente di un partito e dunque la sua capacità di convincere l’elettorato e di governare dipendono dalle scelte coraggiose che proprio in occasione delle fasi congressuali chi si candida alla leadership deve provare di voler compiere davvero.
È ampiamente noto quanto il Partito Democratico abbia bisogno di questo coraggio, dalla periferia al vertice. Spesso tuttavia la valorizzazione del capitale umano sembra rappresentare niente più che un elemento marginale o una promessa disattesa, che non trova concretizzazione né all’interno, né al momento del voto amministrativo e politico.
È facile promettere il rinnovamento, ma è molto più difficile realizzarlo. Sembra che ancora una volta la fedeltà abbia prevalso sulla lealtà, sul tanto invocato merito, sulle competenze e persino sulle passioni autentiche. Sicuramente sulla gioventù – quella che si rimbocca le maniche, che studia, che lavora –, fin troppo assente salvo sparute eccezioni. Chi non investe sul futuro al momento del congresso, su un rinnovamento sì progressivo, ma al contempo sostanziale, come può qualificare la propria proposta quale alternativa al populismo che ritiene di arginare? Un partito paralizzato da questo genere di correntismo, che non ha niente a che fare con i programmi, con le idee, con i valori, in che modo e in che misura intende veramente dare voce al cambiamento? Non possiamo non domandarcelo.
Matteo Renzi si è presentato la prima volta ai democratici sostenendo di voler cambiare il PD per cambiare l’Italia e in tanti gli hanno dato fiducia. Sappiamo tuttavia com’è andata: la complessità di governare e forse anche la naturale inesperienza di storie, persone e relazioni gli hanno sottratto ogni energia per dedicarsi al partito, alla sua forma, al suo rinnovamento a Roma come nei territori e nello specifico al Sud, dove andrebbe ricostruito quasi da zero. Ma è anzitutto del partito che un Segretario deve occuparsi, tanto più se sceglie di ricandidarsi a guidarlo e ciò dunque a prescindere dalle sue indiscusse capacità di governo. Nella composizione delle liste per l’Assemblea nazionale, nella scelta difficile delle persone da valorizzare e da sostenere in quanto espressione di qualità, rigore e leale militanza bisognava dimostrare più apertura e più coraggio, dando maggiore spazio all’avvicendamento della gioventù come investimento sul domani. E invece nemmeno Matteo Renzi ha voluto rischiare abbastanza.
La politica e la politica riformista non possono limitarsi a prendere atto dell’esistente, a fare i conti solo con i rapporti di forza in essere; devono guardare a ciò che sarà, devono almeno provare a immaginarlo e a costruirlo. Perciò un’intera fase congressuale, in un momento così drammatico per l’Italia, l’Europa e il mondo e attesa la distanza ormai strutturale tra la classe politica e la società che dovrebbe guidare non può ridursi alla cooptazione in favore di pochi fedelissimi, senza introdurre elementi sostanziali di novità, ma è necessario che coltivi in primo luogo la sana ambizione di scommettere sul futuro della comunità che ci si candida a rappresentare. Ché le parole non bastano, contano i fatti.
I giovani della scuola di Formazione “FARE POLITICA” di LABDEM
Elia Torrisi, Pietro Bonvecchio, Riccardo Ghezzi, Carmen Moliterno, Maria Rosaria Rizzo, Pasquale Siciliano, Giulia Beninati, Sebastiano Di Francesca, Pietro Di Pietro, Carmelo Casella, Fabrizio Calorenne, Marianna Achille, Salvatore Sidoti, Piergiorgio Gerratana, Pietro Selvaggio, Randazzo Angelo, Paolo Lisi, Antonio Lombardo