MESSINA – C’è una compagnia teatrale a Messina che annulla ogni “diversità”. Si chiama “Volere Volare” e a fondarla è stata, ormai anni fa, la regista messinese Giovanna Manetto. Ogni settimana i giovani e meno giovani attori della compagnia si incontrano nella Sala Sinopoli del Teatro Vittorio Emanuele per un laboratorio teatrale da cui nasce poi lo spettacolo di fine corso. A rendere “speciale” il tutto è la finalità: Giovanna Manetto lavora con attori e attrici con disabilità di diverso tipo. Sul palco, però, tutto si annulla.
La carriera di Giovanna Manetto parte sin da adolescente: “Già a scuola, al liceo classico La Farina, ho capito di avere questa grande passione. Cercavano qualcuno per fare Mirandolina e ho iniziato così, con un recital e poi con altri spettacoli. Poi, uscita da scuola, provai a entrare in questa accademia d’arte drammatica a Palmi e superai il provino. Un periodo meraviglioso, in cui ho assorbito di tutto. Ho lavorato intanto anche con una compagnia in Toscana”.
“Ma dopo i tre anni, al ritorno qui in città, ho lasciato il teatro – continua a raccontare la regista, ripercorrendo la propria carriera -. Non mi piaceva molto l’ambiente, non solo qui a Messina ma quello in generale del teatro. Non la sentivo una cosa vicina al mio modo di essere: sgarri tra attori, invidie, non mi piaceva niente. Ho fatto altro, tra cui anche laboratori nelle scuole, con progetti di lettura emotiva ad esempio: facevamo recital, dizione, giravamo. E un’altra cosa molto bella che ho fatto in quei periodi è stata la collaborazione con Daniela Bonazinga, che mi ha portato a conoscere diversi autori di cui facevo letture: Dacia Maraini, Roberto Vecchioni, Simonetta Agnello Hornby. Lo faccio ancora ogni tanto, è qualcosa che mi piace molto”.
La dimensione teatrale poi torna nella vita di Giovanna Manetto in un’altra forma, la compagnia Volere Volare: “Ecco quello è il teatro che non mollerei mai. Il mio amico Ninni Bruschetta mi dice sempre che quello che fanno questi ragazzi è il teatro vero. Sono straordinari, come i bambini sono privi di sovrastrutture. Io li lascio molto liberi, non esiste e non può esistere un metodo con loro se non quello dell’empatia: il contatto con loro si può ottenere solo capendo i limiti e i non-limiti che hanno loro come abbiamo tutti noi”.
“La compagnia è nata tanti anni fa – spiega la regista e fondatrice del gruppo – Dopo una crisi professionale sono andata via, in Germania per tre mesi. Sono tornata per un provino e sono tornata anche perché molte mamme di ragazzi con disabilità con cui avevo lavorato in un precedente progetto mi avevano chiesto di aprire una nuova scuola. Inizialmente avevo detto di no, di non separarli visto che si era creato un gruppo molto bello. Loro hanno insistito e alla fine mi sono imbarcata in questa cosa, da sola. Siamo partiti con 7 ragazzi, dalle suore del Santa Brigida. Ho scritto questo spettacolo e dentro c’ho messo anche alcune amiche, volevo fosse teatro di integrazione. A vedere lo spettacolo sono venuti Ninni Bruschetta e Maurizio Puglisi, all’epoca rispettivamente direttore artistico e presidente del Teatro Vittorio Emanuele. E si sono commossi talmente tanto che mi hanno offerto uno spazio per i ragazzi. Siamo rimasti lì dal 2016, proviamo due volte a settimana e prepariamo lo spettacolo per giugno”.
“Oggi sono 26-28, siamo tanti, non ci entriamo più – prosegue Giovanna Manetto, ridendo -. C’è un ragazzo in sedia a rotelle, ci sono alcuni ragazzi con sindrome di down o con spettro autistico, deficit cognitivi. Alcuni sono più gravi e altri meno, ma sono tutti gestibili: mettono in scena una professionalità indescrivibile. Ed è incredibile quanto ci facciano emozionare. Noi collaboriamo anche col corso di laurea del Dams, spesso studenti e insegnanti si commuovono. Ci vuole pazienza? Sì, ma non sono più sola. Con me c’è una cognitivista ad esempio, che alla fine anche lei ha voluto partecipare attivamene e sale sul palco”.
La passione e l’emozione che Giovanna Manetto prova ogni giorno, a contatto con i suoi attori, traspare dal racconto di una scena particolare: “La scena più bella che ho scritto in realtà non l’ho scritta. C’erano questi due giovani attori con sindrome di down, Lavinia e Giovanni. Lei non parla, lui lo fa sempre meno, soprattutto dopo il lockdown. Loro, ogni volta che dovevamo fare laboratorio, salivano prima sul palco e si fermavano al centro, in silenzio, guardandosi negli occhi. Ho pensato che fosse talmente bello da doverlo portare in scena. Così ho scritto uno spettacolo che partiva proprio col loro ingresso. Poi lentamente lui le prendeva le mani, si abbracciavano, e se la portava via”.
Manetto prosegue: “Per alcuni di loro il palcoscenico è vita. Anche i più gravi hanno la consapevolezza che tutti quelli che li guardano sono lì per loro. E in più, la cosa più bella è il gruppo che si è creato. Un gruppo di amici che permette loro di uscire da casa. Purtroppo a Messina non tutti sanno di questa realtà. Molti finiscono la scuola e poi non fanno nulla. Il teatro serve anche per rapportarsi con gli altri, per socializzare, è terapia per tutti: sembra una parola brutta ma è così, e questo vale per me, per te, per loro”. La regista continua: “Io cerco di prendere le loro abitudini e farle diventare specialità. Diventa speciale una caratteristica. Il fatto che Lavinia non parlasse diventa speciale, un valore aggiunto, non un limite”.
Ci sono stati però anche momenti difficili: “Sì, ce ne sono stati. Ma non ho mai pensato di mollare tutto. Poi è ovvio: mi fanno stancare e arrabbiare a volte, come tutti gli attori. E noi li trattiamo per quello che sono: attori. Quindi se li devo richiamare o rimproverare lo faccio, mi arrabbio e poi mi passa dopo due minuti. Tutto ciò che ho imparato lo metto a loro disposizione. Gli unici momenti davvero complicati sono legati a problemi burocratici. Tutto quello che diventa burocrazia diventa pesante e complicato. Con loro mai, come fai ad arrabbiarti? Non esistono con loro momenti difficili, io dimentico tutto il mondo in quelle due ore”.
In rapporto a Messina, invece, Giovanna parla delle difficoltà quotidiano che si vivono anche nella sua attività: “Ogni giorno ci sono difficoltà diverse e io devo dire che comunque sono fortunata, perché ho un posto protetto, che è il teatro e che i ragazzi meritano. Certo, sai cosa vorrei? Un posto tutto mio, una stanza grande dove poter mettere tutti i nostri costumi e far fare ai ragazzi attività ogni giorno anche la mattina. Vorrei far fare loro tante cose, pitture, storia dell’arte, ogni genere di attività. Per noi è difficile fare tutto in solo due giorni, a volte capita anche di avere il palcoscenico chiuso. Vorrei crescere in questo”.
“La mia vita è dedicata a loro – conclude la regista – ne sono felice e voglio che sia così ancora a lungo. Ho le persone giuste accanto, vorrei che la compagnia crescesse ancora. La forza e la volontà ci sono e credo che Messina non abbia nulla di simile. Questi ragazzi dopo la scuola sono abbandonati a se stessi. Ma non possono stare a casa tutto il giorno perché hanno tanto, tantissimo, da dare. Dico sempre che è molto di più ciò che loro danno a me rispetto al contrario: ti danno tantissimo e hanno tanto da dare”: