Le manette sono scattate all’alba ai polsi di 12 persone, tutte riconducibili alla sfera d’influenza dei gioiesi Piromalli a eccezione di qualcuno nell’orbita del clan rosarnese dei Pesce.
L’operazione Geolja – com’era denominato il primo nucleo abitativo di Gioia Tauro, sorto in epoca medievale – è un nuovo “colpo” alla potente ‘ndrina Piromalli, egemone nell’intera Piana.
A eseguire gli arresti tra Gioia Tauro, Brescia e Milano i Carabinieri, su disposizione del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria Valerio Trovato. Ad agire, i militari del Comando provinciale di Reggio Calabria e dei Reparti territorialmente competente. Supporto dallo Squadrone eliportato “Cacciatori di Calabria”, dall’8° Nucleo elicotteri di Vibo Valentia, dal Nucleo carabinieri cinofili.
L’inchiesta è stata coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia reggina (procuratore distrettuale, Giovanni Bombardieri) nelle persone del procuratore aggiunto Gaetano Paci e della pm antimafia Giulia Pantano.
Dieci le persone finite in cella: i fratelli Domenico, Francesco e Salvatore Copelli (quest’ultimo, già recluso a Cosenza), Antonio Gerace, Domenico Ragno, il 41enne Girolamo Piromalli detto “Mommino”, casualmente arrestato mentre si trovava nel capoluogo lombardo. E ancòra Vincenzo e Domenico La Rosa, Antonino Plateroti, il 26enne Rocco Molè (già dietro le sbarre a Bari). Domiciliari, invece, per il 75enne Rocco Giovinazzo e il 73enne Giuseppe Pesce.
Sono invece complessivamente 21 i soggetti indagati.
Sancito inoltre il sequestro preventivo del capitale sociale e del patrimonio aziendale di 6 aziende gioiesi. Si tratta di un panificio, un lido, una concessionaria, un distributore di benzina, un autolavaggio ed un’impresa di rivendita di pietre da costruzione.
Le fattispecie di reato ipotizzate nei confronti delle persone coinvolte sono associazione a delinquere di stampo mafioso, trasferimento fraudolento di valori e illecita concorrenza con minaccia o violenza con l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso.
Le indagini della Sezione operativa della Compagnia di Gioia Tauro hanno preso le mosse nell’agosto del 2018 e si sono protratte fino al maggio dello scorso anno.
Molto significativo, come evidenziato dagli stessi magistrati della Dda reggina nella conferenza stampa tenuta “in remoto” questa mattina, il contributo di ben 6 collaboratori di giustizia al riguardo.
Tutto prese le mosse dall’incendio di un panificio a Gioia, che produsse danni per circa centomila euro. Benché l’esercizio commerciale fosse assicurato, apparentemente un atto del tutto sproporzionato rispetto al giro d’affari che poteva assicurare il modesto “pizzo” su un panificio. Ma, come ha fatto presente ai cronisti il procuratore distrettuale Bombardieri, «ne andava di mezzo molto di più del denaro ricavabile con l’offerta al Santo, come viene chiamato in gergo il “pizzo”. Il panificio è stato incendiato per “far vedere chi comanda” a Gioia Tauro, per blindare il controllo del territorio».
Come ha fatto presente in conferenza stampa il comandante provinciale dell’Arma, colonnello Marco Guerrini, le indagini successive hanno svelato i contorni di una cappa a dir poco asfissiante ai danni dell’economia locale. Il racket era esercitato con richieste magari non insostenibili, ma costanti e perentorie.
Conversando tra loro, i commercianti hanno talora parlato di una sorta d’«occhio bionico»; a far capire che si sentivano monitorati, anzi spiati dai Piromalli.
«I riscontri acquisiti – ha rilevato il procuratore Giovanni Bombardieri – ci hanno offerto uno “spaccato” inquietante della criminalità organizzata locale. I Piromalli non si limitavano a chiedere il “pizzo”: dettavano legge su ogni minima cosa. Pretendevano che il panificio incendiato vendesse la rosetta a 35 centesimi come il panificio “protetto” da loro. Che aprisse con orari dettati da loro; che chiudesse per ferie quando lo chiedevano loro. Una situazione del tutto incompatibile con la libera concorrenza e, in definitiva, con lo sviluppo economico nell’area».
Fondamentale, comunque – come spiegato dagli inquirenti –, risultava la «messa a posto», la «regolarizzazione» da parte del singolo esercizio commerciale. E nella logica ‘ndranghetistica, doveva essere l’imprenditore a preoccuparsi di «mettersi a posto». Non è un caso che l’incendio del forno gioiese sia avvenuto ancor prima di qualsiasi richiesta estorsiva da parte della ‘ndrina.
Per quanto riguarda il “pizzo” in sé, le modalità per estorcere da parte dei Piromalli erano tante. In un caso, ha fatto presente il comandante della Compagnia gioiese dei Carabinieri, capitano Andrea Barbieri, 500 euro furono piazzati dentro un panino. In altra occasione, gli sgherri della ‘ndrina si presentarono al panificio chiedendo d’acquistare i biglietti per una riffa. In situazione diversa, un affiliato non chiese soldi, ma la possibilità d’usare “concretamente” la licenza commerciale di un altro.
Quasi paradossale, poi, il frangente che la ‘ndrina Piromalli non “parlasse” con una sola “voce”; anzi. Tra “Mommino” Piromalli e la frangia della cosca riconducibile a Salvatore “Turi” Copelli c’erano screzi continui. E a levar la furia, come nella migliore delle tradizioni criminali, erano le vittime. Commercianti che si vedevano oggetto di richieste estorsive ripetute e cercavano «di non scontentare nessuno». E non mancavano i «segnali da interpretare», pure con difficoltà, da parte dei commercianti vessati.
Gli stessi titolari del panificio dato alle fiamme a Gioia, poco dopo ricevettero la visita dei titolari del panificio concorrente. Tra detto e non-detto, con qualche domanda curiosa sul perché aprire giusto un panificio, questi ultimi fecero capire che i “rivali” avevano fatto una mossa “sbagliata”.
In realtà, essendo originari di Rosarno, i titolari del forno danneggiato avevano chiesto proprio a criminali rosarnesi di mediare sul territorio. Ma il loro “referente” non aveva potuto lasciare Rosarno perché sorvegliato speciale, e così s’era creato l’equivoco che aveva portato al rogo del forno.
Ma sovente, come rilevato dal reggente del Gruppo di Gioia Tauro della Benemerita, maggiore Marco Filippi, il clan tentava di mettere le mani sull’attività in sé. Per diventare il vero gestore dell’attività imprenditoriale.
Tuttavia, resta l’amaro in bocca a pensare al comportamento proprio degli imprenditori. Che spesso, parlottando tra loro, ipotizzavano d’andar via lontano, al Nord, per non soggiacere alle “regole” della ‘ndrangheta. Mai, però, progettavano di resistere al crimine organizzato.
Persino la denuncia dell’incendio, visto l’eclatante episodio subìto,
fu una sorta di “atto dovuto”; anche per poter poi ottenere il risarcimento. Ma agli investigatori, ai magistrati questi imprenditori hanno pure chiarito di non aver mai pensato di far parte di un’associazione antiracket, per la volontà di non mettersi contro i clan. E anche perché a loro dire aderire a un’associazione antimafia sarebbe stato un gesto “mal visto”
– triste a dirsi – persino dalla clientela.