“Il Clan”, storie di padri e figli

“Il Clan”, storie di padri e figli

Domenico Colosi

“Il Clan”, storie di padri e figli

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martedì 06 Settembre 2016 - 11:23

Rapimenti, estorsioni e i fantasmi della dittatura argentina nel lungometraggio di Pablo Trapero presentato nel 2015 alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia

Argentina, anni '80. Nel periodo di transizione dalla dittatura militare alla ritrovata democrazia, Arquimedes Puccio, ex agente dei servizi segreti, e il figlio Alejandro, giovane stella del rugby, si rendono protagonisti di una serie di sanguinosi rapimenti a scopo estorsivo. Arguzia e precisione machiavellica per un progetto silenziosamente coperto dall’intera famiglia: indifferenza per le urla dei prigionieri nascosti tra le mura di casa, borghese contegno di fronte al denaro che improvvisamente affluisce copioso. Quando la protezione governativa inizia a vacillare, Arquimedes prova ancora un ultimo colpo. Nessuno, tuttavia, potrà più garantirgli l’immunità richiesta.

Presentato in concorso alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia, “Il Clan” di Pablo Trapero aggiunge un nuovo capitolo alla lunga riflessione dei cineasti sudamericani sulle ferite della storia recente: come accaduto per la trilogia di Pablo Larrain (“Tony Manero”, “Post mortem” e “No – I giorni dell’arcobaleno”) sul Cile di Pinochet o per il connazionale Juan José Campanella con “Il segreto dei suoi occhi” (Oscar nel 2010 come miglior film straniero), il regista argentino prova ad esorcizzare con grazia un mondo popolato dai fantasmi di un conflitto divenuto nel tempo velenoso confronto generazionale. Le colpe dei padri ricadono su figli troppo deboli economicamente e moralmente per opporsi ad un disegno già pianificato nei minimi dettagli; la speranza solo nel silenzio e nell’oblio. Il mefistofelico Arquimedes, bonario e quasi protettivo nei confronti delle sue vittime, è metodico, preciso, rassicurato unicamente dalla sacralità della famiglia come fonte di un potere inesauribile: solo una tensione domestica, un piccolo errore di calcolo all’interno di un microcosmo gestito con autorità, può rivelare la debolezza nei confronti di un mondo che procede verso altre autorevoli direzioni.

Vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia, Trapero, già apprezzato autore di “Nacido y criado” e “Elefante bianco”, non prova a celare nel “Clan” l’ammirazione nei confronti del cinema indipendente americano, da Martin Scorsese e Francis Ford Coppola a Paul Thomas Anderson e Quentin Tarantino: eleganti piani sequenza in esterna, ritmo nella narrazione, brio nei dialoghi, equidistanza dai fatti narrati come parola d’ordine di un cinema che cerca solo a livello metaforico la propria risoluta posizione.

Se il giovane Juan Pedro Lanzani (Alejandro) si smarrisce in una recitazione presto stereotipata, è con l’esperto attore comico Guillermo Francella (Arquimedes) che il film cresce nella direzione auspicata dal regista: la gestione controllata delle emozioni, il tono calmo e rilassato che precede azioni ineluttabili. Il male, in questo caso, è solo un dettaglio.

Domenico Colosi

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