Nel lungo periodo la strada da seguire è necessariamente quella di una innovazione strutturale del modello di sviluppo del Mezzogiorno
Le grandi risorse ordinarie delle società private (ma che operano con soldi pubblici – Anas, Ferrovie dello Stato, Enel, Eni, Terna per dirne alcune), non arrivano più al sud: è questo che negli ultimi anni ha ampliato il divario nord-sud e che impedisce alla Sicilia, dieci anni dopo la recessione del 2008, di ritornare ai livelli pre-crisi: dieci miliardi di perdita di produzione dal 2007 (anno di massimo picco di crescita) ad oggi, e 150mila occupati in meno, essenzialmente nel settore delle costruzioni. E’ l’impietosa fotografia che Piero David, ricercatore per l’IBAM-CNR, ha presentato in un incontro, che si è svolto presso la sede provinciale del Pd di Messina, organizzato da LabDem, per analizzare la situazione economica siciliana in vista di un documento sulla perdurante crisi e sulle risorse per lo sviluppo.
Ciò che è emerso è che nonostante la timida ripresa negli ultimi anni, la Sicilia dal 2008 vive una lunga crisi economica e sociale di difficile soluzione.
– Nel decennio che va dal 2007 al 2017, il valore aggiunto della produzione in Sicilia si è ridotto del 12,58%, corrispondente a 10 miliardi di euro di beni e servizi in meno.
– Il settore che ha registrato la maggiore contrazione nel decennio, è stato quello dell’industria (-40,7%) all’interno del quale il manufatturiero ha visto ridurre il proprio valore aggiunto del 37,15%.
– Disastrosa la situazione del settore delle costruzioni, la cui produzione si è ridotta del 47%, con una perdita netta di 2,7 miliardi di euro.
– Di conseguenza, dal 2008 al 2014, gli occupati in Sicilia si sono ridotti di oltre 157.000 unità, 10,7% del totale.
– Da sottolineare che prima del 2007, anno di massimo picco di crescita, la Sicilia comunque scontava dai 20 ai 30 punti percentuali di Pil in meno rispetto alle regioni del Nord.
– Per quanto riguarda la provincia di Messina, nel decennio in considerazione ha registrato una riduzione del valore aggiunto di 7,5 punti percentuali del Pil, corrispondenti a circa 917 milioni di euro.
Questo è lo scenario dell’economia siciliana, nonostante dal 2007 al 2020 siano stati finanziati due cicli di programmazione di fondi strutturali e risorse nazionali: 26 miliardi di euro in tutto. Dei 12,8 miliardi di euro stanziati nel 2014 per PO FESR, PO FSE, PSR, POC e Patti per lo sviluppo, a meno di due anni dal 31 dicembre 2020, sono state spese poco più del 10% delle risorse.
I motivi del ritardo, secondo le analisi di LabDem, risalgono ad una generale insufficienza di risorse umane qualificate nei diversi dipartimenti regionali, all’instabilità politica delle amministrazioni regionali e comunali, col frequente turn-over di assessori dirigenti, e alle difficoltà nella progettazione e nella gestione dei beneficiari, soprattutto dei comuni, ma in generale degli enti pubblici. Un problema a parte sono i grandi progetti infrastrutturali, che in tutti cicli di programmazione, hanno mostrato notevoli criticità, spesso giudiziarie e finanziarie delle ditte appaltatrici.
Quali soluzioni può avere una crisi così profondamente e strutturalmente radicata? Secondo Piero David, nel breve periodo, per accelerare anche la spesa dei fondi strutturali, si potrebbe investire nella riqualificazione urbana e rurale con piccoli interventi diffusi nel territorio, coinvolgendo principalmente Enti Locali e Gal, per migliorare l’accessibilità e la fruibilità dei numerosi attrattori culturali presenti nel territorio siciliano. Tali misure, non prevedendo iter amministrativi complessi, ridarebbero respiro al settore delle costruzioni (dal quale provengono circa la metà dei disoccupati dell’isola) ed aiuterebbero anche un settore in crescita come quello del turismo culturale ed identitario.
Nel lungo periodo la strada da seguire è necessariamente quella di una innovazione strutturale del modello di sviluppo del Mezzogiorno che rafforzi il proprio tessuto imprenditoriale e lo renda competitivo nei mercati internazionali.
Va pensato e costruito un nuovo modello di sviluppo per le regioni meridionali basato su un’economia competitiva che valorizzi le risorse che i territori del sud naturalmente possiedono, e che modernizzi l’apparato industriale specializzandolo su produzioni ad elevato valore aggiunto (farmaceutico, energetico, produzioni multimediali) e in quelli dove si posseggono materie prime non riproducibili in altri contesti (cultura, turismo, agroalimentare), unica condizione per competere nel mercato internazionale non su prezzi e salari, ma valorizzando risorse proprie non riproducibili in altri contesti.
Contemporaneamente è necessario investire in maniera più efficace nelle infrastrutture materiali (strade, ferrovie, scuole, riqualificazione ambientale) e immateriali (conoscenza – istruzione, formazione, ricerca) fondamentali per lo sviluppo, utilizzando efficientemente le notevoli risorse dei fondi strutturali ancora non spese e programmando, secondo una strategia di sviluppo che segua tali linee di intervento, le ulteriori risorse previste dal nuovo ciclo di programmazione Europa 2020.