In ricordo del magistrato messinese scomparso nei giorni scorsi pubblichiamo un'intervista molto interessante realizzata da Alessandra Serio per il settimanale Centonove.
Nei giorni scorsi è morto il giudice Vincenzo Romano. Per ricordare il magistrato, l’avvocato Aura Notarianni ci ha segnalato un’intervista realizzata nel marzo del 2006 per Centonove dalla nostra collega e redattrice di Tempostretto Alessandra Serio, che volentieri pubblichiamo. Nell’intervista emergono spunti di riflessione sul Caso Messina che sono ancora attuali.
Enzo Romano magistrato dal 1967 in pensione dal 2001, primo incarico a Monza quale giudice di tribunale, pretore penale a Reggio Calabria nel 70, giudice del lavoro a Messina, poi sostituto alla Procura della Repubblica del Tribunale di Messina, infine magistrato al Tribunale di Barcellona.
Il caso Messina è ancora aperto? Gli strascichi di quella stagione violenta e controversa si stanno ancora consumando? Oppure come qualcuno ha cercato di sostenere, un caso Messina in realtà non è mai esistito? Davanti ai giudici della Corte d'appello è pendente il processo sulla farmatruffa al policlinico di Messina, il processo Sitel, proprio lo scandalo che ha dato il via al caso Messina. Tra i protagonisti di quella vicenda, il magistrato Vincenzo Romano, oggi in pensione, colpito dall'accusa d'aver tentato di insabbiare l'inchiesta a favore del principale protagonista, Dino Cuzzocrea, su richiesta del collega Antonino Zumbo , cognato di Cuzzocrea. Da quell'accusa il dottor Romano fu prosciolto dal gup, sentenza confermata dalla Corte D'appello di Reggio Calabria. Dopo l'articolo sul caso Sitel pubblicato sul nostro giornale due edizioni addietro, il dottor Romano ha inviato la copia della sentenza. Un'occasione buona per chiedere a lui, che certamente il caso Messina lo conosce bene, di raccontare la sua verità.
Dottore Romano, cominciamo col ricapitolare la vicenda processuale che l'ha riguardata
«La Corte d'appello di Reggio Calabria che ha confermato il proscioglimento per me e per Dino Cuzzocrea e Antonino Zumbo, nelle motivazioni ha dato conto di come la mia gestione dell'intera vicenda processuale sia stata corretta, come corretta è stata la mia interpretazione del fatto ipotizzato a carico di Cuzzocrea. Avevo escluso i reati di abuso, turbativa, corruzione e ravvisato solo il reato di truffa in relazione alla vendita all'Università di prodotti con prezzi maggiorati. Reato per cui poi è stato instaurato il giudizio a carico di Cuzzocrea ed altri, conclusosi con condanne in primo grado e oggi pendente in appello.Correttez- za delle conclusioni – ha osservato la corte – peraltro anticipata dal gup di Messina che, pronunciatosi sul rinvio a giudizio chiesto dalla Procura Generale che aveva avocato il processo, non ha accolto la tesi formulata da quest'ultima, confermando invece l'impostazione da me sostenuta. Insomma: nessun insabbiamento, nessuno sconto».
Andiamo direttamente al cuore del problema. Lei come definirebbe il caso Messina?
«Come la presa di coscienza da parte del corpo sociale di una città che era vissuta per anni senza accorgersi di essere stata colpita da un cancro pervasivo che la andava erodendo. Un cancro, a dire il vero, stranamente selettivo: consumava la città, l'economia e la qualità della vita della maggior parte dei cittadini, ma rendeva sempre più stabile e forte un'invisibile oligarchia che, in maniera trasversale a poteri e istituzioni, negli anni si era andata impadronendo della città. La presa di coscienza non ha, tuttavia, prodotto effetti e la gestione successiva del "caso Messina" è stata fallimentare. Il potere oligarchico ha regolato alcuni conti interni, ha espulso o ridimensionato potenziali concorrenze e si è riposizionato uscendone, forse, più forte di prima. Le prove? Basta confrontare le condizioni della nostra città prima del "caso Messina" con quelle di oggi: il degrado della vita politica e civile ha continuato ad aumentare e la qualità della vita a peggiorare».
Ma allora, il "caso Messina" sarebbe stato un banale regolamento di conti tra le invisibili oligarchie come lei le definisce. Non le sembra riduttivo?
«No, non è stato solo un regolamento di conti. Il regolamento c'è stato ed è stato un aspetto del "caso Messina", ma, da parte dei cittadini c'è stata una consapevolezza, che prima emergeva sporadicamente, del disvalore di condotte tenute da rappresentanti di istituzioni pubbliche dirette a raggiungere accordi e complicità, tra loro e con l'imprenditoria locale, in vista del perseguimento di interessi particolari ed in pregiudizio del superiore interesse pubblico. Direi, semmai, che il "caso Messina" è stata un 'occasione perduta, con una commissione parlamentare antimafia approdata in pompa magna sulle rive dello stretto e poi ripartita dicendo, con espressioni colorite, che qualcosa non andava, ma senza che minimamente venisse chiarito cosa non andava o cosa bisognava fare per porvi rimedio. Io stesso, all'epoca della mia audizione, ho avuto la netta sensazione che i suoi membri tendessero a semplificare i fatti e quindi a mancare il bersaglio. Se la conquista di una consapevolezza da parte dei cittadini non è un mio personale abbaglio, mi sembra che la valutazione sul "caso Messina" sia tutt'altro che riduttiva, anche se i fari accesi sulla città si sono spenti senza evidenziare i mali più endemici e dannosi o i bisogni della città da soddisfare prioritariamente».
Esiste ancora un "caso Messina"?E se si, in che termini?
«Esiste perché del cancro che ha colpito la città non sono state individuate ancora né la natura né le cause. La città di Messina soffre ancora di una assoluta incomunicabilità fra governanti e governati, alla quale bisognerà porre rimedio, creando i presupposti per una larga partecipazione di cittadini alla ricerca ed alla tutela del bene comune. Fino a oggi, però, mi sembra che la parte più sensibile della cittadinanza si sia autoesclusa dalla gestione della cosa pubblica. Se ciò non accadrà, il caso Messina potrebbe risolversi nell'ennesimo crollo di una speranza di cambiamento di equilibri di governo della città fortemente desiderata da quei cittadini che non hanno mai potuto contare a confronto di invisibili oligarchie».
Come si può raggiungere questo risultato?
«In primo luogo munendosi di una classe dirigente, sia politica che burocratica, quanto più preparata possibile in modo da evitare quanto accaduto nel recente passato con la stagione dei mille commissariamenti, i quali, da fatto patologico per la democrazia, sono quasi sembrati un'ultima ancora di salvezza per la città. In secondo luogo con un cambiamento degli equilibri di governo che consenta alla società civile ed alla parte più sana della città di riappropriarsi del suo destino strappandolo di mano alle oligarchie più o meno individuabili che lo detengono».
Esiste coincidenza, a suo avviso, tra verità storica e verità processuale sul "caso Messina"?
«Ad oggi non esiste certamente, perché il dato processuale non è ancora definito ed anche quando lo sarà, risulterà impossibile il confronto perché difetterà il secondo termine di comparazione. La realtà storica, infatti, è complessa e non riconducibile alle schematiche fattispecie concrete su cui si esercita il potere giurisdizionale. E' una verità in continuo approfondimento, mentre quella processuale, una volta raggiunta, tende a restare staticamente fissa. Fra l'altro gli obiettivi della ricerca di verità storiche sono diversi da quelli della ricerca di verità processuali. La verità processuale, in definitiva, si pone nei confronti della verità storica in un rapporto chiaramente strumentale».
In concreto, come si pone il magistrato tra le due verità?
«Si dice di solito che il magistrato deve servire la verità, ma non si specifica quale. Se si trattasse della verità storica dovrebbe essere totalmente libero di usare gli strumenti di ricerca utilizzabili, ed inoltre il suo compito non vedrebbe mai la fine. Dal fatto che esso invece è condizionato nella sua ricerca da limiti procedurali insuperabili e dall'obbligo della ter- zietà, risulta chiaro che la verità che è chiamato ad accertare è solo quella processuale; il suo, cioè, è un mero compito di servizio per consentire a tutte le istituzioni rappresentative di una società statuale di attingere conoscenze di possibili verità storiche. E' infatti, anche grazie a queste conoscenze, che la politica, intesa come società civile, potrà poi porre in essere i necessari correttivi per rimediare alle disfunzioni del sistema».
Perché ha lasciato la magistratura?
«Non ignoro che il magistrato debba, per rispondere alle aspettative esterne sulla sua indipendenza, accettare anche di essere impopolare. Soprattutto quando la piazza, che una volta era fisica oggi è mediatico-politica, chiede a gran voce una soluzione semplificante ai suoi problemi, che non deve essere demandata alla magistratura, ma ricercata ed individuata dalla politica. So anche che il giudice interviene quando il danno si è già verificato, individua la verità processuale, punisce i colpevoli, ma con questo non restituisce la vita agli assassinati e la qualità della vita ai cittadini malgovernati. E so, infine, che il giudice è esposto a disilludere delle aspettative; tutte cose nelle quali mi sono imbattuto nel mio coinvolgimento all'interno del "caso Messina".Nel mio caso, pure uscendo a testa alta dalle accuse rivoltemi, mi sono sentito come il "piccolo giudice" protagonista del romanzo-verità di Sciascia "A porte aperte", dove un magistrato di provincia si oppone alle pressioni, del potente Procuratore del Re per procedere al rinvio a giudizio con una imputazione comportante la pena di morte per un imputato reo confesso di omicidio plurimo, senza far menzione della ricorrenza di una attenuante che avrebbe reso inapplicabile la sanzione capitale. Il piccolo giudice istruttore oppose il suo rifiuto alle pressioni ricevute, e nella sentenza di rinvio a giudizio riconosce la sussistenza dell'attenuante. A differenza di quel piccolo giudice, lasciato senza gratificazioni di carriera, nel mio caso ci sono stati procedimenti penali con pesanti richieste di condanna e condiffidenzeche ancora oggi, nonostante le sentenze pienamente assolutorie, talora riaffiorano. Non ho temuto il peso del giudizio, forte com'ero della consapevolezza di aver agito seguendo solo i dettami della mia coscienza, ma ho avvertito però che il clima così creatosi intorno alla mia persona, avrebbe finito col compromettere l'immagine della mia imparzialità e quindi la fiducia degli utenti alla quale tenevo moltissimo, e sulla quale non potevo in alcun modo intervenire. Rivendico di aver lasciato la magistratura come estremo atto di servizio nei confronti dell'istituzione».
Si parla di un secondo caso Messina a proposito dell'inchiesta Gioco d'Azzardo, che ha svelato nuovi intrecci tra poteri cittadini; anche li torna il suo nome, legato all'acquisto di un box e dell'appartamento al complesso Le Terrazze, dove abita.
«Non conosco l'inchiesta, perché fino in questo momento non ho ricevuto nessuna contestazione. Se di un secondo caso Messina si tratterà, speriamo che non ripeta gli errori di sviamento registrati nel primo».
Alessandra Serio