Il Dna dei messinesi sepolto dalle macerie del 1908: una mutazione genetica

Il Dna dei messinesi sepolto dalle macerie del 1908: una mutazione genetica

Rosaria Brancato

Il Dna dei messinesi sepolto dalle macerie del 1908: una mutazione genetica

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domenica 30 Dicembre 2018 - 06:04
L'alibi

Penso spesso che con il terremoto del 1908 sia accaduto qualcosa di grave al nostro Dna di messinesi. Non ho ovviamente alcuna base scientifica per dirlo, né mi arrogo la superbia per poterlo sostenere. Ma è come se sotto le macerie in quei 37 secondi fosse finito il nostro Dna e ci sia stata una mutazione genetica, peraltro al contrario rispetto a quanto accade alle comunità di fronte alle catastrofi.

Siamo eredi di quei 37 secondi. Siamo stati partoriti geneticamente da quei calcinacci, dai soprusi che seguirono ai primi soccorsi, dalle “deportazioni” e dalle successive “colonizzazioni”, dalla polvere che si sollevò quando su ordine del generale Mazza fu usata la dinamite in ogni parte della città, dall’abisso di dolore di chi non è riuscito a rialzarsi.

A volte penso che siamo ancora lì, impauriti sotto quel che resta di un tetto e di un focolare, con la paura di alzarci e scoprire che siamo senza gambe, con la rassegnazione di chi vede gli sciacalli portar via i nostri beni, immobili a ricordare com’era bella la nostra casa, in attesa che venga qualcuno a soccorrerci e a dirci cosa fare per consegnarci a lui, docili e silenziosi.

Quel terremoto resta la più terribile sciagura naturale del Mediterraneo. Sono morti 80 mila messinesi. Oggi siamo poco meno di 240 mila, quindi equivale a dire che un secolo fa è perito un terzo della popolazione attuale. Ma un secolo fa 80 mila persone costituivano tutta LA CITTA’. Sono morti praticamente tutti. Sono morti i messinesi, quelli nel cui sangue scorreva storia, identità, orgoglio. Chi rimase sotto le macerie in parte fu salvato, in parte fu lasciato al suo destino. Altri furono fatti salire sulle navi e portati via. Soprattutto orfani, madri e bambini. Non sempre tornarono.

Quello che accadde in quei mesi ha cambiato il nostro Dna. Quando fu il tempo di “ricreare Messina”, avvenne una sorta di “operazione coloniale”. Vennero pionieri dalla provincia, dai villaggi collinari, da altre Regioni.

I miei nonni, sia materni che paterni, non erano “messinesi purosangue”. Venivano da Marsala, Napoli, La Spezia. Il nuovo messinese “nasce” da pionieri venuti dalla Calabria, dai villaggi collinari come Cumia, Castanea, dai Nebrodi, dalla Sicilia, dal salento.

Molti si sono innamorati di questa città che era fatta di baracche e di cemento armato, altri furono attratti dalle agevolazioni previste dal governo nazionale su chi investiva. I rapaci e gli sciacalli nel frattempo erano in gran parte andati via con il bottino rubato ai morti e ai vivi. Molti di quei rapaci misero radici qui. Ma non nacquero piante rigogliose perché l’animo del rapace è avido, pensa ad accumulare e a non produrre.

In quei 37 secondi avvenne di più. Il terrore e la sindrome di abbandono e di inferiorità ci è entrata nel sangue.

Per paura del mare gli abbiamo voltato le spalle ed oggi la zona falcata, il lungomare che non esiste è il simbolo di questo amore ferito, siamo come i bambini lasciati in orfanotrofio.

Il 28 dicembre su facebook ho letto un post di Giuseppe Laface illuminante: “Da allora avvenne una trasformazione quasi antropologica della città e della sua gente. Il mare che era simbolo di ricchezza, di apertura al mondo, il mare che ci univa al resto del continente, che era cultura ed anche trascendenza, diventava un qualcosa da cui ci si doveva proteggere. Ed ecco che Messina ed i messinesi voltarono le spalle allo stretto, si ritirarono verso le colline sviluppando un istinto di difesa da ciò che li aveva duramente colpiti. In questo secolo al terremoto sono state attribuite colpe anche ben oltre le sue effettive responsabilità, fino a diventare un alibi per tutto o quasi. Quello che per un secolo avrebbe dovuto costituire lo stimolo per una comunità umana a reagire, assurge a scusa per giustificarsi degli insuccessi e diventa una permanente ragione per piangersi addosso. Ostaggi felici dei propri carnefici e dei propri incubi. Succubi di una sindrome di inferiorità rispetto alle città vicine”.

Nel 1911 Giacomo Longo da Torre Faro scrisse il libro denuncia “Il duplice flagello”, che oggi chiameremmo “instant book”, nel quale raccontava gli errori e gli orrori di una gestione post-terremoto affidata ai militari guidati dal generale Mazza ed una macchina inadeguata e spesso cieca di fronte ai soprusi.

Mandò quel libro a tutti, compresi il Re Vittorio Emanuele e la Regina Elena, che gliele restituirono dopo aver fatto indagare su di lui.

E’ come se da quelle macerie non ci fossimo mai alzati o come se, alzati, ci fossimo ritrovati impotenti. Non abbiamo sviluppato quella che oggi si chiama resilienza e che è determinazione a non arrendersi, capacità di trasformare gli ostacoli in opportunità. Ci siamo alzati e abbiamo scoperto che non avevamo le gambe ma invece di provare a usare le braccia, o trovare un’alternativa, siamo rimasti lì aspettando che ci aiutassero, diventando complici di chi, con una mano ci aiutava e con l’altra ci derubava. Con una mano soccorreva e con l’altro imbracciava il fucile per non farci avvicinare alle macerie dove ancora c’erano i nostri cari.

Per un secolo siamo rimasti abbracciati a quest’alibi, abbiamo dato per scontato di essere poveri e disperati per destino.

Continuiamo a essere diffidenti nei confronti di un mare solcato da navi che ancora oggi portano via i nostri figli. Lo percepiamo come un mare ostile quando vediamo la città attraversata dai tir, quando siamo costretti a battaglie decennali per ottenere le coincidenze tra aliscafi e treni a Villa San Giovanni, quando ci vediamo tagliare corse e sovvenzioni per i mezzi veloci sullo Stretto, quando non riusciamo a essere quel porto che vorremmo e ci vediamo superare dal Pireo sul quale i cinesi hanno preferito scommettere. O ancora, quando le navi da crociera si fermano e i turisti scappano per altri lidi. Siamo l’unica città costruita sul mare che non ha un lungomare degno di questo nome ed in Fiera c’è addirittura una “fortezza” per non farcelo vedere e godere.

Ecco perché spesso penso, tra un anniversario e un altro, che sarebbe bello rivolgersi ad uno scienziato che si occupa di genetica per trovare il modo per recuperare il nostro Dna sano, resiliente e felice.

Rosaria Brancato

0 commenti

  1. letterio.colloca 30 Dicembre 2018 11:41

    Già negli anni ’60 era evidente la “crescita demografica” SMISURATA:a pagarne il primo costo,le campagne:abbandonate dai “viddani” inurbati,hanno resistito al degrado per circa un ventennio;oggi le male conseguenze ambientali.La città -su misura della giusta densità (80000 abitanti!!!) subì più del terremoto danni in tutti sensi :si è imbarbarita a tal punto che “gli sciacalli” -calati da paesucoli dei Nebrodi e dintorni (uno per tutti,da UCRIA ),hanno ASSOGGETTATO Messina a predazioni,forme delinquenziali di MAFIA -di cui ancora oggi si occupano gli inquirenti……..Per evitarmi tanto SCHIFO,mi sono trasferito LONTANO da qui in quegli anni! per ritornarci dopo 40 anni ….nel VERMINAIO,dove imperversano imbecillità ed arroganza viddana!

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  2. Giuseppe Smedile 31 Dicembre 2018 10:35

    E’ verissimo, la nostra città porta le profonde cicatrici di quel disastro: una rassegnazione generale sia dai cittadini che dalle istituzioni.
    Spero che un giorno un piccolo gruppo di messinesi decida di guidare questa città, al di la dei propri interessi, verso una crescita opportuna al 13° comune d’Italia per numero di abitanti.

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