Il volto-maschera di un grande Lavia in questa intensa diagnosi dei vizi umani
Dall’ipnotico racconto di Fedor Dostoevskii del 1876, pubblicato ne Il diario di uno scrittore, il grande Gabriele Lavia ci ha fatto omaggio di un intenso monologo, drammatico, onirico nel contempo, curando, oltreché la dosata interpretazione, anche la regia. E così, dopo il debutto al Teatro Antico di Morgantina, anche Catania – e il suo sito archeologico di utilizzo novello, dai tratti certo peculiari, attorniato come è da palazzine – ha potuto godere della magica piece. Certo, la serata particolarmente torrida e l’assenza della pur minima brezza serale, non hanno invogliato le presenze, che sono state piuttosto contenute.
Ciononostante, con la professionalità che lo contraddistingue, Lavia ha dato vita ad un ottima performance, in una sua personale rivisitazione del testo. La prova attoriale non si è avvalsa, come già accaduto in altre location, di scenografie – pochi ammennicoli di cui si circonda l’ordinaria vita di un uomo ridicolo, e cioè uno scrittoio antico, con su alcuni libri, una candela e, accanto, la pluricitata “poltrona alla Voltaire” – ma abbiamo ugualmente, mano a mano che la performance si è snodata, visualizzato l’esistenza frustrante (non più di altre, invero) del protagonista, la sua cupa solitudine commista al livore verso il genere umano che, a suo dire, lo sbeffeggerebbe e con il quale non riesce a condividere in alcun modo le pene esistenziali né i pochi istanti di gioia che pur allietano le nostre vite. L’assenza totale di pulsioni ed emozioni – e nella descrizione di questi abissi Dostoevskij è antesignano dell’esistenzialismo di Sartre e Camus e del Teatro dell’Assurdo – porta alfine il protagonista innominato a tentare di mettere in pratica quel suicidio a più riprese vagheggiato… Il sonno, però, incauto o provvidenziale, giunto proprio mentre sta impugnando la pistola, bloccherà l’esito infausto, generando invece (attraverso un vivido sogno) una presa di coscienza e una inaspettata redenzione. Solo la ricerca della verità può essere la via della salvezza (alla quale però non si potrà mai giungere) soprattutto per chi è cosciente del proprio desolante status: a tale risultato lo condurranno gli abitanti di un pianeta simile alla terra, che hanno mantenuto l’innocenza e la purezza primordiali, additandogli tale unica possibilità per condurre una buona vita.
Tutto così potrà rimettersi in ordine, questo è l’elementare segreto per l’equilibrio delle umane creature. Un’altra riuscita prova della rassegna Anfiteatro Sicilia, che gli Assessorati Regionali, Turismo e Spettacolo e Beni Culturali, hanno organizzato in collaborazione con Taormina Arte – divenuta di recente Fondazione, per la quale peraltro il mattatore aveva diretto per un periodo decennale la Sezione Teatro – con l’Agenzia per la Coesione Territoriale, la Direzione Generale Cinema e Sicilia Film-Commission, nell’ambito del programma Sensi Contemporanei. Noi, dannati, cupi, indifferenti e solitari abitanti di questo terrestre inferno, avvinti anche da sensi di colpa che ci rendono sofferenti in modo esaltato, possiamo riscoprire una via d’uscita nella ricerca del perseguimento della massima evangelica così vecchia e sempre per noi irraggiungibile, “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Il finale fuori programma è stato impreziosito da una sorta di confessione spontanea che ha messo in luce l’amore di Lavia per la terra di Sicilia (e per la città etnea in particolare) attese le sue ascendenze siculi. In chiusura, una piccola annotazione di colore: la presenza felpata e elegante, ovviamente inattesa, di un gatto che, nel palcoscenico catanese, ha involontariamente contribuito a rendere un sacrosanto messaggio: il mondo animale può sicuramente darci supporto e amore incondizionato e deliziare il nostro tempo terreno, senza pretendere contropartita alcuna.
Tosi Siragusa