L'analisi del caso Antoci dopo la relazione dell'Antimafia Ars che scarta la pista mafiosa. Sotto la lente le incongruenze delle indagini, sullo sfondo il Pd e l'antimafia di professione sui nebrodi
Nessun dubbio sulla buona fede di Giuseppe Antoci . Se simulazione di attentato ci fu, quella notte di maggio del 2016 a Cesarò, l’ex presidente del parco dei Nebrodi ne fu vittima inconsapevole. Così la Commissione Antimafia regionale conclude il dossier di 105 pagine che condensa l’inchiesta condotta dall’organismo dell’Ars sul caso.
Due gli aspetti salienti del dossier. i buchi nelle indagini e le testimonianze offerte dai protagonisti delle indagini stesse.
A cominciare dalle tantissime incongruenze operative rilevate nelle modalità di gestione dell’attentato da parte del pool di agenti ai quali era affidata la tutela di Antoci, in primis il commissario di Sant’Agata, Daniele Manganaro. Poi la mancanza di un qualunque riscontro negli ambienti criminali siciliani.
Infine le conclusioni della Scientifica di Roma che, alla lettura della commissione, sembrano avvalorare i dubbi sulle testimonianze offerte dai poliziotti sul posto. La traiettoria, l’assenza di bossoli, il numero di colpi sparati: tutto poco compatibile con il kommando di 12 uomini sul lato inferiore della scarpata che spara con le doppiette di cui parlano Manganaro e i suoi uomini.
Poi la sconcertante contraddittorietà tra le testimonianze degli stessi investigatori e inquirenti. L’ex commissario Mario Ceraolo racconta la sua versione, smentita dal procuratore aggiunto della Dda Angelo Cavallo, oggi capo della Procura di Patti. Ancora Ceraolo racconta di testimonianze raccolte dagli stessi protagonisti, Manganaro e Tiziano Granata, che però lo hanno querelato. Le stesse versioni di quella notte, raccontate da Granata, Manganaro e gli altri agenti, sembrano non filare perfettamente.
Infine i due questori che si sono succeduti a Messina e ai quali è toccata la patata bollente, Giuseppe Cucchiara e Mario Finocchiaro, che mai una volta – censura la Commissione – sentono il bisogno di mettere a confronto i loro dirigenti e agenti, sulle diversità di letture di quell’attentato.
Scartata come meno probabile la pista dell’agguato mafioso teso ad eliminare Antoci, la Commissione apprende dallo stesso PM Angelo Cavallo la prima delle visioni alternative. Il magistrato non l’ha mai messa per iscritto, la sua “versione” viene fuori dall’audizione in commissione e più che una ipotesi è il delinearsi delle prime perplessità suscitate dall’attentato unite alle deduzioni dettate dal fiuto di un profondo conoscitore del territorio e delle dinamiche criminali quale è il procuratore Cavallo.
Una sensazione, insomma, e come tale Cavallo la trasferisce alla Commissione guidata da Claudio Fava. Per l’oggi procuratore capo di Patti è plausibile che qualcuno avesse voluto dare un segnale forte e spaventare Antoci per via dell’attività condotta attraverso il protocollo sui terreni – proprio i quei mesi in tanti avevano perso i ricorsi al Tar contro i primi provvedimenti, e con i ricorsi avevano perso soldi e possibilità di dragare altri finanziamenti.
Qualcuno criminale o comunque del posto, quindi, che però ha condotto un’azione autonoma, quasi estemporanea. Senza il consenso della mafia locale? Obietta la Commissione. Senza il consenso della mafia locale, conclude Cavallo, che poi non ha avuto il bisogno di “punire” questi cani sciolti perché nel frattempo le tante perplessità che immediatamente si erano sollevate sul fatto avevano messo in moto la macchina del fango contro Antoci. Un atto dimostrativo, quindi.
La terza pista è quella della simulazione, e la Commissione qui non può andare molto oltre, perché tracce di una messinscena vera e propria non ce ne sono. Antoci è una vittima in buona fede, Tiziano Granata – che è rimasto sul posto dopo che il presidente è stato messo al sicuro insieme ad un altro collega –non c’è più. Non c’è più Rino Todaro, che faceva da collegamento da remoto tra gli agenti sul posto e il commissariato, tra il Commissariato e la Dda, durante le indagini. Non sono mai venute fuori le attività di riscontro che i carabinieri hanno condotto, dopo l’attentato.
Nel dossier della Commissione, quindi, ci sono soltanto i testimoni che riferiscono delle perplessità sollevate dal modus operandi che era diventato solito, durante la reggenza Crocetta della Regione: i suoi uomini assumevano ruoli apicali, e arrivava la minaccia. Prima dell’agguato, Antoci aveva ricevuto almeno tre messaggi intimidatori. Come tutti gli altri elementi chiave del “cerchio magico” di Crocetta e Lumia.
E’ proprio questo, in quegli anni, lo sfondo sul quale si iscrive la vicenda Antoci. Uno sfondo che Claudio Fava conosce bene e che ha ben indagato e riassunto, con la relazione della Commissione sul caso Montante.
Un dante causa della Regione che ha fatto e disfatto per anni, che ha usato l’antimafia di professione nella maniera più imprenditoriale possibile, che ha avuto accesso agli apparati dello Stato, piegandoli al proprio tornaconto.
Per Fava, la “centrale operativa” del potere Montante sono appunto quei rapporti con le intelligence “deviate” e Banca Nuova, una vera e propria cassaforte di rapporti. Antoci ha sempre negato rapporti con Montante, e rapporti non ne vengono fuori neppure dall’inchiesta, minuziosa, sfociata nel processo all’ex numero uno di Confindustria Sicilia. Di Banca Nuova, invece, ad Antoci non hanno mai chiesto.
Un’altra figura chiave dello stesso spazio politico condiviso da Antoci è Francesco Calanna. Rais locale della sinistra e di Lumia, oggi presidente del Gal Nebrodi Plus, ha sempre spalleggiato Antoci alla guida del Parco e al varo del Protocollo. Calanna i Nebrodi li conosce bene, e gli uomini che li abitano conoscono bene lui. Atti intimidatori nei suoi confronti direttamente non ne sono mai stati segnalati.
Un altro nebroideo dei Nebrodi targato PD ma di un’altra area, è il sindaco di Troina Fabio Venezia. Proprio nel centro dell’ennese ricade la maggior parte dei terreni sui cui vige la diatriba e su cui si è incentrata la lotta all’accaparramento dei fondi comunitari attraverso le titolarità delle aree e le frodi comunitarie. Alcuni di questi terreni ricadono a cavallo col comune di Cesarò, e in passato non sono mancate le frizioni, anche “amministrative” per l’assegnazione delle aree demaniali.
Venezia ha cominciato la sua denuncia della mafia dei pascoli giovanissimo, e l’ha sempre portata avanti appoggiando le iniziative economiche del territorio che da quelle logiche ha cercato di sganciarsi. E’ finito anche lui sotto scorta. Senza clamori mediatici, senza che i riflettori dell’antimafia lumiana abbiano mai puntato verso e su di lui.
Dalla politica all’azione amministrativa, Antoci ha guidato il Parco negli anni difficili della “normalizzazione” seguita all’istituzione dell’area protetta. Dopo un iniziale investimento ambientale, in tempi più recenti le condizioni interne dell’area verde non sembrano oggettivamente migliorate. E la politica locale continua a darsi battaglia anche sul tavolo del Parco secondo logiche spartitorie e che nulla hanno a che vedere con la tutela ambientale. Spinte da cui Antoci è sempre stato alla larga, ma che ha faticato a fronteggiare e gestire.
Sull’efficacia del protocollo Antoci, invece, i numeri che consentirebbero una reale analisi non sono ancora arrivati, e certamente non sono ancora maturi i tempi per una corretta valutazione di uno strumento giudicato comunque molto utile, tanto da essere diventato legge dello Stato.
A differenza di quanto fatto nel caso Montante, su Antoci la Commissione antimafia Ars non sembra ritenete utile tratteggiare anche questo sfondo. E lascia aperti altri interrogativi, chiedendo a nuove indagini di organi competenti di rispondere.
Possibile che nessuno abbia mai sentito il bisogno di chiedere agli operatori economici dei Nebrodi qual è stato il reale impatto del protocollo Antoci?
Possibile che nessuno abbia mai sentito il bisogno di conoscere quali indagini stessero conducendo Granata e Todaro, che certo non erano soltanto gli angeli di Antoci ma due uomini chiave del pool ecomafie?