Arresti Sicilia-Calabria, montagne di droga. E richieste di "pizzo", anche ai villesi La Valle

Arresti Sicilia-Calabria, montagne di droga. E richieste di “pizzo”, anche ai villesi La Valle

Mario Meliado

Arresti Sicilia-Calabria, montagne di droga. E richieste di “pizzo”, anche ai villesi La Valle

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martedì 17 Maggio 2022 - 17:45

I "narcos" siciliani compravano cocaina - ma anche altri stupefacenti - anche a tranche da 10 kg dai fornitori della Locride, che se la procuravano a Milano

REGGIO CALABRIA – Nel contesto della maxioperazione antimafia scattata stamattina a Palermo, diversi sono gli sviluppi legati al versante squisitamente reggino e calabrese di un’operazione congiunta di Carabinieri e Polizia di Stato che ha investito Calabria e Sicilia, ma pure Piemonte e Liguria, con 31 arresti complessivi per associazione mafiosa ed estorsione aggravata, favoreggiamento personale e detenzione d’armi.

Narcotraffico, il ruolo dei calabresi

Sul versante calabrese, il cardine secondo gli investigatori era rappresentato dai fratelli Giuseppe e Pietro Parisi, il primo – 45 anni – nato a Melito Porto Salvo e il secondo – 41 – di Siderno. Entrambi con precedenti per traffico di stupefacenti; Piero Parisi, in più, già sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno.

I due fratelli avrebbero garantito un regolare approvvigionamento di cocaina, eroina, hashish e marijuana: droga che loro acquistavano a Milano, si apprende. La polvere bianca, in particolare, inondava letteralmente le “piazze di spaccio” siciliane, trattata a botte da 10 chilogrammi ad acquisto, garantendo introiti stimati in 80mila euro a settimana. Basta fare un po’ i conti: oltre 300mila euro al mese, poco meno di 4 milioni di euro l’anno solo da questo canale.
Una vera manna per le ‘ndrine.

Trasportare la “neve”? Un lavoro per Cosa Nostra

I calabresi avevano imposto una regola tassativa: la cocaina che veniva acquistata doveva poi essere trasportata e gestita da “corrieri” di Cosa Nostra. Un dettaglio non da poco, tanto che nelle conversazioni captate più volte si legge un dubbio da parte degli acquirenti dei clan siciliani sull’opportunità di continuare a sopportare quello che era considerato un pesante «rischio».

L’onere ricadeva, in particolare, sugli uomini del mandamento di Brancaccio, guidato secondo gli inquirenti da Giovanni Di Lisciandro.
Tra i suoi più stretti collaboratori c’era il 53enne Maurizio Di Fede, identificato come il responsabile delle estorsioni: ce ne sono oltre 50 puntualmente documentate, perfino ai danni di piccoli e piccolissimi imprenditori come un povero sfincionaro di Palermo.
Ma Di Fede era soprattutto ritenuto il responsabile del narcotraffico per l’intero mandamento, giovandosi peraltro della collaborazione di uomini che si chiamano Tommaso Nicolicchia, Salvatore Lotà, Michele Mondino. E nella sostanza era sempre lui, coi suoi “spalleggiatori”, a mantenere i contatti coi fornitori del Reggino.

Traditi dal corriere “insospettabile”. E da un telefonino…

Non mancava una cura estrema per alcuni aspetti logistici.

Per esempio, Onofrio Palma e Giuseppe Ciresi – genero di Maurizio Di Fede – avrebbero prestato regolarmente la propria utilitaria a bordo della quale usualmente viaggiava la cocaina: una Toyota “Yaris”, considerata vettura particolarmente azzeccata per nascondere i panetti di polvere bianca. Peraltro, a effettuare materialmente il trasporto sarebbe stata una “testa di legno”: un incensurato che normalmente traghetta fra Messina e Villa San Giovanni caricando animali.

Di Fede, del tutto stupito del prezzo basso, in un’occasione si reca personalmente nella Locride per «capacitarsene». E se fossero stati fermati dalle forze dell’ordine? «Una ventina di bocce di cannoli e un bidone di ricotta, lo metto nella macchina, se mi vedono: ‘Noi lavoriamo con la ricotta a Brancaccio, stiamo andando a vedere… (inc.)… di riprendere il mercato nelle Calabrie’, ma puliti come l’oro senza».
La qualità della cocaina lo colpisce: «Minchia… la cocaina ma che cos’era! Ma che cos’era, Totò!».

Il 25 marzo del 2019 però viene arrestato il “corriere”, Francesco Paolo Patuano, che nell’occasione aveva usato un’altra auto sempre di Ciresi, una Volkswagen “Golf” Sw. Patuano è intercettato all’altezza dello svincolo autostradale palermitano di Buonfornello: nel vano motore, dentro il carter in plastica che ospita il filtro dell’aria condizionata, scovati i due panetti di droga: 821 grammi d’eroina e oltre un chilo e 100 grammi di coca.

Timori e premure

Nella circostanza, oltre all’arresto del “corriere”, vengono sequestrati stupefacente, auto e telefonino. Di Fede teme che proprio lo smartphone sequestrato consenta adesso alle forze dell’ordine d’arrivare a lui: «Lui… il danno l’ha combinato supra il traghetto! Chissà… con chi parlava al telefono… (sorride) l’ha visto quello!»

Come già evidenziato, curatissime le ancor minime questioni logistiche. Una volta arrestato Patuano, Di Fede suggerisce a Giuseppe Ciresi cosa far dichiarare al padre rispetto al prestito dell’auto; si preoccupa di far trovare un avvocato al “corriere” intercettato e un lavoro alla moglie di lui; puntualizza che proprio i calabresi gli hanno fornito un telefonino apposito per le conversazioni “riservate”, e che c’è già un accordo di massima tra le due parti per le forniture a venire.

In tempo successivo, Pietro Paolo Garofalo, Vincenzo Petrocciani e Ignazio Lo Monaco sono intenti a convogliare sul mercato palermitano ingenti quantitativi di cocaina: il solo Garofalo, al ritmo di cinque “pacchi” (cioè chilogrammi) a settimana. In poche settimane, gli acquirenti siciliani sarebbero andati nella Locride almeno 6 volte.

Se i calabresi sono «i primi al mondo», campani e siciliani sono invece penalizzati da «una brutta nomina», commenta Lo Monaco; questo perché «non ci sono famiglie di un certo calibro come una volta» e «non si vogliono muovere».
Del resto, il narcotraffico che piacerebbe a Ignazio Lo Monaco è quello “in grande stile”, con decine di tonnellate di ‘neve’ trasportate a bordo di un veliero. Ma, ammette Lo Monaco, «noi stiamo parlando di milioni di euro… Io penso che qua non ci sono queste cose».

“Corrieri” arrestati a ripetizione

E infatti le cose vanno male anche per quantitativi decisamente inferiori: il 30 novembre 2019, il cinquefrondese Salvatore Curinga viene “beccato” mentre trasporta una decina di kg di coca sulla sua Peugeot “207” appunto per conto di Garofalo. Resisi conto che il “corriere” pianigiano era stato intercettato dagli agenti della Squadra mobile, i palermitani temono due cose: che possa essere utilizzato il flex per tagliare l’abitacolo – altrimenti sarebbe stato secondo loro complicato per le forze dell’ordine trovare la droga, piazzata in un vano nascosto – e poi «micio micio», come i siciliani chiamavano in codice i cani antidroga.

Si sarebbe poi reso necessario per la mafia siciliana mobilitare un’intera azienda d’autotrasporti (la Cavallaro) e tre autisti, cioè Alessio Cavallaro, Settimio Centineo e Antonino Mulè.

Ma l’11 dicembre del 2020 proprio Mulè (come Curinga, come in altra occasione Saverio Zaccaria e Vincenzo Fortuna) viene arrestato. Stava trasportando 10 chili di cocaina per conto di Antonio Lo Nigro, della famiglia di corso dei Mille: le forze dell’ordine però riusciranno a trovare la borsa-frigo in tessuto morbido che conteneva la “roba”, piazzata dentro un gavone all’altezza delle ruote posteriori sinistre.

Un annetto dopo quell’arresto, proprio Lo Nigro riuscirà ad avere anticipazioni riservate da una “gola profonda” sull’imminente arresto suo e di altri narcotrafficanti in seno a Cosa Nostra, a tal punto da avvisare Vincenzo Petrocciani con una lettera che lo lascerà «scombussolato».

Il racket, Ecofal e gli imprenditori villesi La Valle

Si diceva però del racket delle estorsioni. Anche in questo senso, le cointeressenze tra versante calabrese e siciliane non sono poche.

Nelle 1.270 pagine dell’ordinanza si leggono vari riferimenti alle richieste di un «regalino per Natale», cioè dell’esazione del “pizzo” – per un controvalore da 1.500 euro – da parte delle cosche del capoluogo siciliano nei confronti di una ditta calabrese «che smantella i treni dentro la ferrovia». Una situazione vantaggiosa che Gaspare Sanseverino perseguiva tramite Vincenzo “Vicè” Di Fresco, in rapporti con un ex dipendente dell’impresa in questione.
«Me la sbrigo io», taglierà corto poi il coaffiliato Jimmy Celesia, di fatto “stoppando” l’azione estorsiva di Sanseverino, che ne parlerà stizzito con Sergio Giacalone in alcune conversazioni captate dagli investigatori.

Stando agli inquirenti, la ditta calabrese oggetto delle pressioni di Cosa Nostra sarebbe l’Ecofal di Villa San Giovanni, che da un anno esatto – dal maggio 2021 – è peraltro sotto sequestro.
Infatti Trenitalia il 17 maggio 2019 stipulò un appalto per l’affidamento del «servizio di bonifica dall’amianto, la rimozione di rotabili inamovibili e successive eventuali demolizioni» col raggruppamento temporaneo d’imprese composto dalla mandataria savonese (più precisamente di Cairo Montenotte) Vico e la mandante Ecofal.
Vagoni e locomotori furono oggetto dei lavori di demolizione e bonifica proprio alla stazione palermitana di Brancaccio fra l’ottobre del 2019 e il febbraio del 2021.

Gli imprenditori villesi Egidio e Francesco La Valle – 57 e 66 anni rispettivamente –, interpellati sul punto, ai magistrati hanno riferito di non aver mai subìto richieste dal racket né danneggiamenti a scopo intimidatorio. Francesco La Valle, in particolare, ha anche specificato di non essersi mai recato a Palermo per seguire personalmente i lavori, pur essendo informato sul loro andamento.
Adesso sono indagati entrambi per favoreggiamento personale, in sostanza con l’accusa d’aver mentito per proteggere i loro stessi estorsori.

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