Quartetto Guadagnini, una dolce malinconia

Quartetto Guadagnini, una dolce malinconia

Giovanni Francio

Quartetto Guadagnini, una dolce malinconia

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lunedì 03 Aprile 2017 - 22:07

Al Palacultura l'esaltazione del quartetto d'archi ottocentesco, la forma di musica da camera "colta" per eccellenza

I due quartetti eseguiti dal Quartetto Guadagnini sabato al Palacultura, per la stagione musicale delle Associazioni musicali riunite, Accademia Filarmonica e Bellini, costituiscono due capolavori della musica da camera del tardo ottocento, appartenenti a due “grandi”, Brahms e Dvorak, fra loro contemporanei, la cui poetica musicale è assai simile, avendo il primo influenzato in maniera rilevante le composizioni del secondo, sia nelle linee melodiche che nelle strutture armoniche.

Eppure questi due quartetti non potrebbero essere più diversi fra loro. Ciò è dovuto presumibilmente alla diversa stagione creativa dei due musicisti, nell’ambito della quale vanno collocati i due brani. Il quartetto op. 51 n.1 in do minore, eseguito per primo dai quartettisti, invertendo l’ordine del programma di sala, costituisce il primo quartetto per archi composto da Johannes Brahms, nonostante il musicista fosse già quarantenne. Si tratta pertanto di un’opera della maturità, la cui gestazione durò quasi dieci anni, tanto era la ritrosia di Brahms nell’affrontare un genere musicale portato da Beethoven ai risultati straordinari che conosciamo: “Non potete immaginare cosa si provi a sentire i passi di un gigante come Beethoven dietro le proprie spalle”. Anche il primo violino del Quartetto Guadagnini, Fabrizio Zoffoli, nell’introdurre il quartetto, ha fatto cenno alla travagliata gestazione che ha dato vita al quartetto in do minore, riferendo anche del famoso detto di Brahms, secondo cui non è difficile tanto comporre quanto eliminare le note superflue. Il quartetto ha un tono drammatico e corrusco, e risente, in particolare nel primo movimento, dell’influenza dei quartetti beethoveniani, soprattutto quelli dedicati a Razumowsky. Alla tensione del primo movimento – “Allegro”, di grande impatto emotivo, seguono due movimenti – “Romanza. Poco Adagio” e “Allegro molto moderato e comodo. Trio: Un poco più animato” – dal carattere più lirico e disteso, di ispirazione schubertiana, mentre l’ultimo movimento – Allegro – riassume tutti i temi incontrati, conferendo all’intero brano un carattere ciclico. Il quartetto op. 96 in fa maggiore di Antonin Dvorak, il cui titolo “Americano” non è originale, eseguito nella seconda parte della serata, è sicuramente il quartetto più amato e conosciuto del musicista boemo. Quando Dvorak scrisse il quartetto ne aveva già composti parecchi, ma quello in fa maggiore ha una connotazione del tutto peculiare per le circostanze nelle quali fu composto. Infatti il brano appartiene a quelle composizioni scritte da Dvorak durante la sua permanenza in America, luogo in cui videro la luce alcuni dei suoi più grandi capolavori, come la Suite Americana, il Concerto per violoncello e soprattutto la celeberrima Sinfonia dal nuovo mondo, il suo capolavoro sinfonico. Questa musica nasce dall’incontro fra due civiltà, quella europea, di cui Dvorak intendeva portare testimonianza e trasmetterne i contenuti nel nuovo continente, e quella americana, e tale incontro ha dato vita a capolavori dai tratti inconfondibili e assai suggestivi. In questo filone si colloca il quartetto Americano, composto nell’estate 1893, mentre il musicista si trovava a Spillville, nello stato dell’Iowa, quindi nel cuore del Nuovo mondo. Se nel primo movimento – Allegro ma non troppo – immaginiamo le vaste praterie, gli orizzonti sconfinati attraversati dalle carovane, nel terzo movimento – Molto Vivace – ma soprattutto nel quarto – Vivace ma non troppo – ci sembra di vedere i chiassosi, movimentati e fumosi saloon americani. Il secondo movimento – Lento – forse il vero cuore del quartetto, una dolce e malinconica cantilena, ci trasmette invece la commovente sensazione dei canti degli indiani nativi d’America. Il vero miracolo di questo capolavoro è che in nessun movimento sono utilizzati motivi popolari americani: tutti i temi sono frutto della fantasia di Dvorak, eppure riescono a creare magicamente l’atmosfera del nuovo continente.

L’esecuzione del quartetto Guadagnini, formato da Fabrizio Zoffoli e Giacomo Coletti al violino, Matteo Rocchi alla viola e Alessandra Cefaliello al violoncello, è stata più che dignitosa, più convincente nel quartetto di Dvorak, mentre nel quartetto di Brahms a volte è sembrata priva della necessaria energia. Un concerto dedicato alla musica colta nel vero senso della parola, anche nel bis concesso al non numeroso pubblico presente, il “Contrapunctus 1” dall’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach, nella versione per quartetto d’archi (l’Arte della fuga è stata scritta senza indicare la strumentazione, ed infatti viene eseguita sia su singoli strumenti a tastiera – piano, cembalo, organo – sia da complessi d’archi o archi e fiati), una versione che permette allo spettatore la chiara individuazione del tema, introdotto a turno meravigliosamente da ogni strumento, sommo studio della fuga e del contrappunto che nelle mani di Bach diventa pura poesia.

Giovanni Franciò

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