Una commistione di echi beckettiani e kafkiani domina l’atmosfera in questa rivisitazione che rimane rispettosamente vicina all’originale joyciano.
Penultimo appuntamento per Atto Unico – Scene di Vita. Vite di Scena. La rassegna si avvia alla conclusione portando sul palco in doppia replica un pezzo imprescindibile della letteratura mondiale, un’opera considerata prototipica della fase nascente del romanzo moderno. Parliamo dell’ “Ulisse” di James Joyce e della chiave di lettura che ne da Claudio Collovà nel suo “Bloom’s Day”, ultimo anello di una catena alla quale il regista lavora ormai da diversi anni. La piece si inserisce, infatti, in un filone che comprende altri tre lavori sullo stesso tema, prodotti dal Teatro Biondo di Palermo tra il 2010 ed il 2013.
In Bloom’s Day, grazie all’apprezzata interpretazione di Sergio Basile (unico attore in scena), il regista muove un ulteriore passo in avanti nella sua ricerca, concentrandosi sul peso dell’inconsistenza, il morbo che appesta tutti i protagonisti dei romanzi dell’epoca. “Bloom è avvolto da un disagio privato che rispecchia quello generale e pubblico della città”, afferma il regista. E’ la perdita di senso vissuta dall’uomo moderno, che privo di punti di riferimento morali ricerca la propria identità a livello basale, regredendo ad uno stadio primitivo in cui il tempo è scandito dai bisogni primari, come nutrirsi, riprodursi, defecare. Lo sgretolarsi dei valori che costituivano l’anima del vivere sociale, fa si che ad essi sopravviva solo la patina esterna, un contenitore privo di contenuto in cui l’ampollosa ritualità regola il viver quotidiano. Così la “giornata di Bloom” procede, nella sequenza inconcludente e interminabile dei gesti ordinari: prendere il the, lavarsi, leggere il giornale, chiacchierare amabilmente con un conoscente per la strada… mentre il tempo si annacqua e si dilata a dismisura. Tutto concorre a trasmettere l’idea dello scopo perduto e più di tutto il catafalco mortuario della moglie Molly, immobile al centro della scena, mentre il marito le si muove intorno con assorta noncuranza. Una commistione di echi beckettiani e kafkiani domina l’atmosfera in questa rivisitazione che, stando alle parole del regista, rimane rispettosamente vicina all’originale joyciano. “Non ho osato aggiungere nulla di mio. […] Nelle nostre intenzioni non si dovrebbe avvertire nessun distacco tra il romanzo e lo spettacolo.”
Joyce appartiene a quella fase, nella storia della letteratura, in cui l’azione cede il passo alla riflessione e il dinamismo è rimpiazzato da una staticità disperata. L’andamento dei fatti appare spezzato, paralizzato davanti all’io frammentato del protagonista. La meditazione lenta e continuativa costituisce l’unico fulcro della storia, ma è un lavorio interiore che non conduce mai alla svolta ed il cui unico possibile sbocco è il ripiegamento inevitabile su se stessi. Non c’è possibilità di riscatto. Sergio Basile risponde bene alle esigenze del personaggio, mostrandoci la compostezza goffa e desueta di Bloom, così grottescamente accoppiata alla trivialità di certi suoi pensieri. Gli amanti del genere non potranno che apprezzare, sebbene vi sia stato anche tra i Grandi chi non abbia negato un certo dispetto di fronte ad un filone che dichiara i propri presupposti essere la mancanza stessa di presupposti e che trascina il lettore in un pantano psicosomatico di inettitudine.
Così si espresse Virginia Woolf: “Ho terminato l'Ulisse. […] Il libro è prolisso. È salmastro. È pretenzioso. È rozzo, non solo in senso corrente, ma anche in senso letterario. Uno scrittore di vaglia, voglio dire, rispetta troppo lo scrivere per fare il furbo.”
Nondimeno, gusti individuali a parte, il lavoro congiunto di indagine ed interpretazione compiuto da Collovà e Basile appare certamente apprezzabile e ben fatto.
Laura Giacobbe