La solennità della musica sacra per celebrare il 40° anniversario dell’ordinazione sacerdotale dell’arcivescovo di Messina
Il Conservatorio Corelli, con la collaborazione dell’associazione culturale D’artEventi, l’Arcidiocesi di Messina e l’Istituto Antonello, hanno voluto celebrare venerdì con un Concerto di Pasqua il 40° anniversario dell’ordinazione sacerdotale dell’arcivescovo di Messina, Monsignor Accolla. L’evento, in scena presso la Basilica cattedrale di Messina, ha visto protagonisti, oltre l’Orchestra del Conservatorio Corelli, integrata come sempre da docenti ed esterni, e diretta dal maestro Bruno Cinquegrani, due cantanti, il mezzo soprano Emy Spadaro ed il celebre soprano Chiara Taigi, ormai presenza ben conosciuta dalla cittadinanza messinese. Per l’occasione sono stati eseguiti l’Aria sulla quarta corda di Johan Sebastian Bach e lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi.
Dopo i soliti e immancabili ringraziamenti e discorsi di rito, finalmente, con ben tre quarti d’ora di ritardo rispetto all’orario programmato, ha fatto ingresso l’orchestra. Il primo brano eseguito in realtà costituisce il secondo movimento “Aria” della Suite in re maggiore n. 3 BWV 1068, e l’improprio appellativo “sulla quarta corda” deriva da una trascrizione per violino per permetterne l’esecuzione appunto sulla quarta corda (il sol). Si tratta di una delle composizioni più celebri del grande musicista tedesco, nella quale già si manifesta (si tratta di un’opera relativamente giovanile, composta durante la permanenza alla corte di Kothen) quella contemplazione del dolore, mistica e composta, propria dei grandi capolavori della maturità. Poco si può aggiungere su un pezzo che tutti hanno ascoltato almeno una volta, magari nella trascrizione per orchestra di Gustav Mahler. Non sarà privo di interesse però sottolineare come la Suite, insieme alle altre tre di Bach pervenute a noi, fu riscoperta da Mendelssohn (come d’altronde altri capolavori bachiani, quali la Passione secondo San Matteo), che dopo averla qualche anno prima eseguita al pianoforte dinanzi a Goethe, la diresse in un concerto a Lipsia nel 1838, e solo da allora fu resa nota al grande pubblico. Lo Stabat Mater di Pergolesi costituisce probabilmente l’opera più famosa scritta sulle parole della preghiera duecentesca, attribuita a Jacopone da Todi. Il dolore universale della perdita del “Figlio” sacrificato per la salvezza dell’uomo, da parte di Maria, nel capolavoro di Pergolesi assume connotazioni del tutto peculiari e uniche. Il musicista di Jesi compose il suo testamento spirituale a soli ventisei anni, poco prima di morire, e tale circostanza fu sufficiente per rendere il brano oggetto di idolatria in epoca romantica, con il fiorire di leggende (sarebbe stato composto sul letto in punto di morte, e ciò giustificherebbe le numerose correzioni e imperfezioni del manoscritto). In effetti è stupefacente come un musicista così giovane abbia potuto concepire una musica di tale profondità. Il miracolo di Pergolesi consiste nell’aver raggiunto una perfetta ed equilibrata fusione fra la musica di scuola napoletana, teatrale e plastica, ed i rigidi e compassati modelli liturgici. Ne scaturisce un capolavoro di impronta fortemente drammatica, teatrale e introspettivo ad un tempo, ricco di pathos, in cui il dolore umano è protagonista fin dalle prime note, quel meraviglioso incipit, lamento così carico di dolore e mesta rassegnazione. Un evento celebrativo non si presta per ovvi motivi a giudizi critici di sorta.
Un paio di osservazioni critiche tuttavia è doveroso farle: 1) non può esserci alcuna ragione plausibile che giustifichi un ritardo di quasi quarantacinque minuti rispetto all’orario programmato, ritardo francamente intollerabile e che altrove non potrebbe mai verificarsi; 2) quel pubblico, che, evidentemente non avvezzo ad assistere a concerti, fortunatamente accorre numeroso ad eventi così importanti, avrebbe potuto documentarsi, per es, leggendo le puntuali note al programma di Matteo Pappalardo, preziose ed appropriate, ed in tal modo probabilmente avrebbe evitato di applaudire, incomprensibilmente, a metà dello Stabat Mater.
Chiusa la parentesi polemica, di cui faccio ammenda, abbiamo potuto apprezzare un buon livello esecutivo da parte dell’orchestra, che ha eseguito più che dignitosamente i brani proposti, ed un’ottima performance delle cantanti, alle prese con impegnativi duetti, e distintesi anche per l’interpretazione sofferta dei testi dal contenuto così drammatico (meravigliosa la Taigi nel “Vidit suum dulcem natum”). Forse non ha convinto la scelta dei tempi, talora troppo rapidi, come l’incipit “Stabat mater dolorosa” la cui esecuzione un po’ affrettata ha rischiato di compromettere quella solennità ricca di mistero che lo contraddistingue. In ogni caso una buona prova, che ha permesso al numerosissimo pubblico di apprezzare due grandi capolavori, nonostante l’acustica non proprio perfetta della nostra Cattedrale. A conclusione della serata, l’arcivescovo Accolla non ha mancato di ringraziare gli orchestrali, i cantanti, ma anche tutti i presenti per la vicinanza e l’affetto dimostrati, elargendo anche un piccolo sermone, in cui, inevitabilmente, l’accento è stato posto sull’apertura dei nostri cuori nell’accoglienza dei migranti.
Giovanni Franciò