30 anni dopo le verità dei pentiti fanno luce su 13 omicidi. Le storie delle vittime
Due ragazzini giustiziati al cimitero, i loro corpi fatti trovare sdraiati sotto una grossa croce e un altare di cemento. Un agronomo crivellato di colpi in auto, sotto gli occhi della figlia piccola che ha rischiato anche lei la vita. Un commerciante ucciso mentre chiudeva il negozio con accanto il figlio di 11 anni. Sono passati 30 anni ma quegli omicidi non sono rimasti insoluti. L’ultima operazione del Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri di Messina, sfociato nei 7 arresti di ieri, fa luce su quei fatti di sangue e individua mandanti e killer, restituendo dignità alle famiglie di quelle vittime, a quelle lapidi senza colpevoli.
Le rivelazioni dei pentiti
Un lavoro certosino degli investigatori, quello che emerge dalla lettura del provvedimento cautelare siglato dal giudice per le indagini preliminari Ornella Pastore, effettuato attraverso l’analisi di montagne di verbali di pentiti, incrociando rivelazioni relativamente datate con quelle dei pentiti più recenti. In particolare quelle rilasciate tra il 2014 e il 2015 da Carmelo D’Amico, ex capo dell’ala militare dei barcellonesi auto accusatosi di diversi omicidi, che hanno trovato conferma nelle dichiarazioni di Salvatore Micale, pentitosi nei primi giorni del 2013. Alla fine dell’indagine “Inganno” la Procura ha chiesto l’arresto anche dei due collaboratori, ma il GIP ha deciso diversamente.
Piccoli furti puniti con la morte
Un inganno è proprio quello che ha portato alla morte Antino Accetta e Giuseppe Pirri. Un delitto degno di un film dell’orrore, titolarono i giornali quel giorno di fine gennaio del 1992. Era la mattina del 21 e una telefonata anonima avvisò le forze dell’ordine del fatto che all’ingresso del cimitero di Barcellona c’erano due cadaveri. Quando le divise arrivarono, trovarono i corpi senza vita dei due giovani stesi sotto un altare di pietra sormontato da una enorme croce.
Quell’inganno per attirare le vittime al cimitero
A svelare i retroscena chiamandosi in causa direttamente nell’azione sono appunto D’Amico e Micale. Raccontano che l’omicidio dei due ragazzi fu commissionato dal gotha del clan perché rei di commettere furti e rapine senza l’autorizzazione della famiglia. Una sera furono visti intorno alla casa di una coppia di anziani: si sapeva che in casa ci fosse nascosto parecchio denaro, malgrado uno di loro andasse in giro in carrozzina a raccogliere spazzatura, raccontano i pentiti. Il giorno dopo appresero che i vecchini erano stati rapinati. L’associazione fu immediata e la famiglia ne decretò l’esecuzione. I mafiosi gli diedero appuntamento per una vendita di stupefacenti, i due furono attirati al cimitero e lì uccisi. “Dopo, brindarono con lo champagne a casa del boss”, svelano ancora i pentiti. A dire l’ultima parola negli omicidi i pentiti indicano i vertici della famiglia di Giuseppe Gullotti, che accostano a Sam Di Salvo.
Ucciso perché aveva “venduto” il boss Santapaola
Angelo Ferro non sopravvisse alla pioggia di colpi calibro 38 piovutagli addosso il 27 maggio del ’93 mentre era in auto con la figlia. Lei piccola assiste a tutto: “Mio padre mi spinse col braccio sul pianale del sedile”. Un istinto di padre che le salvò la vita: lei corre fuori dall’auto, chiede aiuto ai passanti, viene medicata in ospedale. Angelo Ferro, 57 anni, di professione agronomo alle Condotte, non ce la fa. Nitto Santapaola, il potente boss catanese, era stato arrestato esattamente 9 giorni prima. L’omicidio è rimasto insoluto per decenni. Poi i svelano mandanti ed esecutori, chiamando in causa Gullotti e Di Salvo. E’ stato ucciso perché aveva fatto arrestare Santapaola, che a Barcellona era stato latitante, dice D’Amico. Agevolava gli affari del clan Cappello di Catania nel messinese, spiega Micale, che ascrive il mandato di eliminarlo ancora una volta ai vertici della famiglia barcellonese.