Una riflessione a partire dal film: dai diritti delle donne, nell'Italia del '46 e oggi, alla necessità di potenziare i servizi d'assistenza psicologica
Pubblichiamo la riflessione di Nunzio Bombaci sul film “C’è ancora domani”.
Nel nostro Paese, la recente proiezione nelle sale dell’opera prima di Paola Cortellesi ha coinciso con l’acuirsi del dibattito circa il persistere di tratti patriarcali nella vita sociale. Il susseguirsi dei femminicidi riportato dalle cronache ha reso quanto mai vivo tale dibattito, al quale il film può arrecare interessanti spunti di riflessione. Spesso, all’interno delle polemiche circa le cause remote della violenza contro le donne, il patriarcato è stato posto sul banco degli imputati. Non si può escludere che alle origini di siffatta violenza si possano individuare le ultime resistenze di una mentalità patriarcale dura a morire, paragonabili agli estremi e inquietanti sussulti di un corpo in agonia.
La necessità d’affrontare il disagio psichico
Tuttavia, la sempre più giovane età degli autori dei femminicidi dovrebbe chiamare in causa anche il disagio psichico quanto mai diffuso tra i nostri giovani, che si esprime pure in altri episodi di violenza e di comportamento antisociale. Un disagio, questo, dinanzi al quale le generazioni precedenti e, soprattutto, le istituzioni rimangono sorde. Nel nostro Paese, per fronteggiarlo, non basta denunciare il persistere del patriarcato e preconizzare progetti scolastici di educazione affettiva e sentimentale, poiché bisognerebbe, al contempo, potenziare i servizi di consulenza psicologica e i dipartimenti di salute mentale nonché le strutture protette, per la cura dei disagi psichici più gravi.
L’attenzione di Paola Cortellesi ai diritti delle donne
Il film C’è ancora domani ha riscosso un meritato successo al botteghino nonché una miriade di apprezzamenti da parte della critica, tanto che è presumibile una prossima e ampia distribuzione all’estero. La storia è ambientata in un quartiere popolare della Roma dell’immediato dopoguerra, ancora presidiata dalle truppe di occupazione. La tendenziale monocromia dei palazzoni di quei quartieri è resa opportunamente dal bianco e nero della pellicola. La protagonista, Delia, è una delle tante madri di famiglia della Roma povera che contribuiscono al magro bilancio domestico svolgendo svariati lavoretti precari. Nell’interpretarla, Paola Cortellesi conferma il suo multiforme talento di attrice, attestato in precedenza, per lo più, da una cospicua serie di film ascrivibili alla più godibile commedia italiana, nonché di sketch da cabaret tutt’altro che banali. Altrettanto convincente è Valerio Mastandrea nell’antipaticissimo ruolo del marito Ivano, uomo pervicacemente maschilista e violento.
Uno sguardo retrospettivo all’attività artistica di Paola Cortellesi consente di scorgervi, pur nella molteplicità dei generi e dei registri linguistici, il fil rouge costituito dalla promozione dei diritti della donna all’interno di una cultura che presenta ancora significativi tratti patriarcali. Esemplare, al riguardo, è il film Scusate se esisto! (2014), dove l’attrice interpreta una architetta di talento che stenta ad affermarsi in prima persona, in un contesto lavorativo i cui ruoli apicali sono monopolizzati dagli uomini. Nei toni leggeri della commedia, quella pellicola mette alla berlina le conseguenze (grottesche, oltre che inique) delle discriminazioni di genere. C’è ancora domani, invece, denuncia le conseguenze, ben più gravi, del patriarcato vigente in un tempo trascorso, prevalentemente nel registro espressivo del dramma, ma non senza significative concessioni allo stile della commedia. Si comprende allora come i recensori attenti alla contaminazione dei generi abbiano ascritto il film al genere della dramedy femminista.
Nella Roma del dopoguerra, la storia di Delia, vittima del patriarcato
Nel far rivivere la Roma povera e stremata del dopoguerra, la regista ha attinto a piene mani dai ricordi delle nonne. La vita della protagonista si svolge tra la casa, i negozi, i cortili, le famiglie ove presta servizio. Nei cortili si respira aria di borgata e, come sovente avviene tra poveri, vi si può riscontrare l’ambivalenza che caratterizza i rapporti di vicinato, improntati talora alla solidarietà e all’aiuto reciproco, talaltra all’invidia e alla maldicenza, sino a giungere allo scontro, verbale e non solo.
Nelle scene iniziali, Delia appare quale vittima rassegnata del patriarcato in cui è reclusa, reso in metafora dal buio seminterrato in cui abita la sua famiglia. Come tante madri di famiglia povere dell’epoca (soprattutto del nostro Sud), la donna riesce a sottrarre all’occhiuto controllo del marito una parte dei soldi guadagnati, accantonandoli per il corredo o l’abito da sposa della figlia. E come altre donne della sua generazione (e non solo) tenta di nascondere in tutti i modi i lividi lasciati dalle percosse del marito.
In realtà, tuttavia, non si tratta di una donna rassegnata, sebbene sulle prime induca a crederlo l’inespressività del volto, interrotta di tanto in tanto da un tenue sorriso. No, Delia non è rassegnata, tanto è vero che giunge ad escogitare una mossa imprevedibile per risparmiare il suo stesso destino di sottomissione alla figlia adolescente. La donna giunge a compiere un gesto “eversivo”, che scompiglia (“fragorosamente”, come lo spettatore potrà notare) il corso degli eventi.
Il mondo di Delia sembra quasi irredimibile. La mentalità dei maschi che ne fanno parte appare ancor meno redimibile. Essa trasuda un patriarcato monolitico, ubiquitario, onnipervasivo come una polvere sottile. Tale mentalità permea anche le famiglie borghesi ove la protagonista presta i propri servigi e mostra tutta la propria ottusità nei dialoghi tra Ivano e il padre. Per costoro, in fondo, Delia non è neppure una donna, bensì una serva, peraltro tutt’altro che perfetta in tale ruolo: a lei non viene perdonata alcuna svista o smemoratezza né alcuna sommessa chiosa ai comportamenti incongrui dei maschi di casa.
Il patriarcato: una distopia a ritroso?
Allo spettatore, sin dall’inizio, quel mondo appare intollerabile, in tutte le sue espressioni. Si tratta di una società in cui il principio di autorità e le gerarchie imperniate sul genere precludono lo spazio al dialogo tra l’uomo e la donna. Si può ritenere che, alla luce della mentalità prevalente ai nostri giorni, quella società costituisca una sorta di distopia, ancorché proiettata al passato piuttosto che al futuro. In sintesi, si tratta di una distopia…a ritroso.
Pertanto, il domani cui allude il titolo del film non sarebbe che il riproporsi dello ieri e dell’oggi? Una exit strategy ci dovrà pur essere. Ma essa non si realizzerà con la fuga da quel seminterrato buio, insieme a un amore che ha superato la prova del tempo, come talvolta è balenato nella mente della stessa Delia. Piuttosto, un domani diverso dall’oggi è affidato alla possibilità che anche la protagonista, in quanto donna, esprima la propria volontà nella vita politica, accedendo al voto.
Quel voto alle donne il 2 giugno 1946
In effetti, il 2 giugno 1946 si vota per l’Assemblea costituente e il referendum istituzionale. Quel giorno, Delia deve ricorrere a un sotterfugio per potersi recare al seggio. Prima, va a messa con i familiari. Nella chiesa semivuota il sacerdote congeda i fedeli richiamandoli al dovere di agire secondo coscienza, poiché Dio “vede e giudica”: il Dio, giudice monocratico che presiede a un mondo graniticamente patriarcale, scruta ogni interstizio della realtà. Nel concepirsi a sua immagine e somiglianza, gli uomini fedeli a quel Dio-patriarca giudicano gli altri credendo che nessuno abbia il diritto a giudicarli; tanto meno lo hanno la loro mogli e le loro figlie. Omnes iudicant et a nemine iudicantur. Quel Dio, nella cui fede sono stati educati a “vedere” e a “giudicare”, non ama. E neppure loro, da piccoli patriarchi, sanno amare. Sembra, quindi, che nel loro universo nessuno ami nessuno.
Immagine tratta dalla pagina Fb Vision Distribution.