Dolan e il nuovo cinema d’autore con È solo la fine del mondo

Dolan e il nuovo cinema d’autore con È solo la fine del mondo

Lavinia Consolato

Dolan e il nuovo cinema d’autore con È solo la fine del mondo

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mercoledì 14 Dicembre 2016 - 23:04

Una famiglia riunita dopo 12 anni di assenza di un componente, il quale deve annunciare una tragica verità. Dopo Mommy Dolan ci racconta una nuova storia familiare, restando fedele alla sua poetica, ma migliorando il suo stile. Ha solo ventisette anni, ma già si grida al maestro

Louis (Gaspard Ulliel) sta per morire e decide di tornare dalla sua famiglia dopo 12 anni di assenza, durante i quali è diventato famoso come giovane drammaturgo. Ad attenderlo in casa vi sono una madre – La Madre – (Nathalie Baye), che con ansia ha preparato una cena abbondante e si è vestita con molta cura, ma dall’apparenza molto kitsch; la sorella minore Suzanne (Léa Seydoux), così giovane che ha un ricordo molto sbiadito del fratello e vuol apparire bella ai suoi occhi; il fratello maggiore, Antoine (Vincent Cassel), nervoso e gradasso con la moglie Catherine (Marion Cotillard), timida e sottomessa al suo fianco, che non ha mai conosciuto Louis.

Appena Louis varca la porta di casa vi è molta ansia da entrambi i fronti: 12 anni formano un varco tra le persone che si oltrepassa tramite le formalità o l’entusiasmo del raccontare le piccole cose, l’attesa delle cartoline da lontano e le gioie perse, come la nascita dei nipoti.

Durante l’antipasto cominciano ad emergere le tensioni familiari, soprattutto tra marito e moglie. Antoine appare davvero nervoso, dando sfogo ad una spiacevole violenza gratuita di fronte alle frasi smozzicate di Catherine che, forse, proprio perché davvero estranea a Louis, lo sa osservare meglio degli altri tre componenti della famiglia, che lo accolgono (o non lo accolgono) con idee già prestabilite. Tra Louis e Catherine avviene un dialogo muto, composto solo di sguardi, tuttavia molto eloquenti.

Ognuno di loro porta un fardello, ha un sogno o un desiderio troppo difficile da realizzare: la sorella agogna la libertà di quel “laggiù lontano” che Louis andando via aveva raggiunto, il fratello maggiore vorrebbe non essere schiacciato dalle responsabilità, niente più doveri. E la madre non è affatto quella stupida un po’ cafona, un po’ chiacchierona che appariva all’inizio. Dietro frasi smozzicate, dietro l’ammirazione, dietro il rancore ci sono sofferenze che Louis non riesce a capire del tutto in principio: avvengono dei climax di tensione che sembra debbano sfociare nella violenza, ma è solo la sofferenza per essere stati “abbandonati” da chi per inseguire l’arte ha portato troppo lontano se stesso.

È solo la fine del mondo è un piccolo capolavoro di estetica e sentimento. Louis muovendosi in questa casa è sommerso da memorie involontarie, come se mangiasse delle piccole madeleine proustiane: il passato dell’infanzia e delle prime esperienze sessuali affiorano tramite getti di musica e immagini spensierate al confronto della pesantezza del presente. Louis vede il mondo che lo circonda con gli occhi di un esteta: sono gli occhi di Xavier Dolan e della sua macchina da presa.

Dolan con questo suo ultimo film è uscito dallo schema queer nel quale era stato rinchiuso; l’omosessualità del protagonista, per quanto fondamentale, non è più così centrale come nei film precedenti, quale per esempio Tom à la ferme (2013), che è a mio parere eccellente, e che, come quest’ultimo, è tratto da una pièce teatrale. Il regista resta comunque fedele alla sua poetica di storie familiari e alla centralità della figura della madre, che, in questo caso, non ha un nome, è solo “La Madre”.

Non si può dire ad un ventisettenne che è un nuovo Autore. O forse sì. Questo è cinema d’autore, è cinema d’essai, perché non è un film “tappabuchi”: è qualcosa che comunica con lo spettatore e che resta dentro anche dopo i titoli di coda e quando la luce in sala si riaccende.

Voto: 9/10

Lavinia Consolato

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