Sulla rotta della decima musa: prossimamente nelle sale il biopic sul poeta recanetese firmato da Mario Martone. Straordinaria l'interpretazione di un eccellente Elio Germano. Impressioni a cura di Tosi Siragusa.
In uscita anche sugli schermi cittadini “Il giovane favoloso” di Mario Martone, come è noto imperniato sulla figura leopardiana, presentato in concorso a Venezia, ove ha riscosso enorme successo (punta di diamante di un filone di opere cinematografiche contrassegnate da un forte legame con la letteratura, ispirate cioè a romanzi o a grandi autori). Il lungometraggio, che si basa sulla sceneggiatura di Ippolita di Majo, ha cercato di allontanarsi dagli stereotipi del “puer eruditus”, ingobbito da uno “studio matto e disperatissimo”, insistendo piuttosto sull’anima del poeta, ferita e perennemente in conflitto con il proprio corpo, affetto – come lo sarà Gramsci – dal morbo di Pott, e sulla sua esistenza inquieta e vagabonda, fragile ed implacabile, fatta di slanci e delusioni, sul suo essere pensatore ribelle, esplosivo, vitale e complesso, socialmente spregiudicato. L’intitolazione è tratta da una definizione di Anna Maria Ortese nel suo “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi” e il poeta appare sì imprigionato nella gabbia del suo corpo sofferente, ma anche in quella del microcosmo familiare, del conformismo, dei detestati salotti alla moda e del giudizio del popolino ignorante (che lo soprannominava “ranavuottolo”) intellettuale profetico quale era e dunque eroe solitario.
Elio Germano, l’eccellente protagonista, nostrano trentenne, alternativo per scelta, fiore all’occhiello italiano nell’universo degli interpreti, già vincitore peraltro, a Cannes del premio quale migliore attore per “La nostra vita”, rivestendo il ruolo del Poeta, è stato messo di fronte a un’asticella più alta da saltare. Elio Germano ha aperto per noi sapientemente una veduta sulla poesia leopardiana, riuscendo a conciliare preparazione tecnica e coinvolgimento emotivo, confronto con una ingombrante biografia e interpretazione, e condendo il tutto con un pizzico di brillante invenzione. La sua interpretazione è certo passata attraverso il fisico leopardiano – raggiungendo il culmine nella deformità frutto di un progressivo accorciamento e rannicchiamento di quel corpo – operando altresì una selezione, fra l’enorme materiale dei gesti e delle parole, di quello più rappresentativo di questo immenso scienziato dell’anima, che incantava tutti parlando. Elio Germano, in conclusione , è riuscito alla perfezione nell’intento di immedesimazione e, evitando il rischio caricaturale, ha saputo essere Leopardi, certo sotto l’attenta direzione di un grande Martone, che è riuscito a filmare, girando a Recanati, in casa del poeta, la sua poesia.
Altri interpreti Massimo Popolizio, nel ruolo di Monaldo, il padre soffocante per troppo amore, che voleva realizzare nel figlio i suoi sogni di grandezza (comunque diverso – in positivo – da come fin qui l’avevamo immaginato ) Michele Riondino, che impersona l’amico Antonio Ranieri, Isabella Ragonese, nelle vesti di Paolina, la sorella, ed Anna Mouglalis in quelle di Fanny Targioni Tozzetti, nobildonna fiorentina, amata senza esito da Leopardi. Irrompe “L’infinito” e conclude il testamento poetico de “La ginestra”, al culmine dell’eruzione vesuviana e del colera e possiamo immaginare l’ansia da prestazione di Germano in una resa che dà voce a tali feticci della letteratura a livello mondiale.
Martone, dunque, ancora una volta grande filmaker dell’800 italiano, nel quale nuovamente, è riuscito a calarsi, realizzando egregiamente questo “Quasi fantasy” sull’anima leopardiana, aderentissimo però alla figura del poeta.
Tosi Siragusa