Il film che fino all’ultimo ha rivaleggiato con La La Land ed ha vinto l’Academy Award come Miglior film, Miglior attore non protagonista e Miglior sceneggiatura non originale. Un dramma di colore, con toni inaspettati
Capitolo 1: Little. Miami, un quartiere abitato da gente esclusivamente di colore, così come le scuole medie e il liceo, praticamente un ghetto. In questo quartiere abita Chiron (Alex Hibbert), chiamato “Little”, il piccolo, che scappa dai compagni di scuola violenti, ma anche dalla madre, Paula (Naomie Harris), incapace di occuparsi di lui perché drogata. Incontra per puro caso Juan (Mahershala Ali), uno spacciatore, probabilmente un capo-piazza, che con molta dolcezza decide di aiutarlo e di portarlo a casa con sé, dalla sua fidanzata Teresa (Janelle Monàe), per una notte. Dopo questo evento, Chiron tornerà più e più volte da Juan e Teresa, al punto che diventano per lui come dei genitori; scoprono che il motivo per cui i compagni lo aggrediscono è che lo ritengono un "frocio". Juan porta il ragazzino al mare e gli insegna a nuotare: da qui in poi il legame con il mare sarà ricorrente.
Capitolo 2: Chiron. Chiron (Ashton Sanders) è diventato un ragazzo, e va al liceo. I problemi con la madre sono diventati più gravi e Juan è morto, non si sa come, ma la figura materna di Teresa resta sempre presente. Più forte si è fatto il legame con un amico d’infanzia: Kevin (Jharrel Jerome), che lo ha soprannominato “Black”, per gioco. Una sera, sulla spiaggia Chiron si sfoga con l’amico, spiegandogli il desiderio inarrestabile di piangere che lo prende a volte. Kevin non solo lo ascolta, ma si lascia andare ad un gesto d’affetto verso Chiron, che così conferma a se stesso la propria omosessualità. Purtroppo però il giorno dopo il bullo che da tempo tormentava Chiron costringe Kevin ad un gioco violento contro l’amico; tenta di tirarsi fuori, ma comunque Chiron viene picchiato selvaggiamente. Pieno di rabbia, invece di denunciare il bullo alla preside, lo aggredisce di sorpresa così violentemente da essere arrestato.
Capitolo 3: Black. Chiron (Trevante Rhodes) vive ad Atlanta in Georgia ed è diventato un criminale pieno d’oro addosso, letteralmente fin sopra i denti; praticamente ha sostituito la figura di Juan, ma è decisamente molto solo. La madre lo ha seguito ad Atlanta e si trova in un centro di recupero dove vuol restare. Inaspettatamente riceve la telefonata di Kevin (André Holland), che non solo è rimasto a Miami, ma lavora in una tavola calda come cuoco, e lo invita a passare a trovarlo.
Il finale è commovente e con una tenerezza inaspettata. I tre capitoli hanno scandito le tre età di Chiron con un particolare leitmotiv: la luce, gialla, ma soprattutto blu. Juan una volta raccontò che una donna gli disse: “Se state alla luce del sole, assorbite tutta la luce. Se c’è la luce della luna voi neri sembrate blu. Siete blu”. Ora, quel blu – il moonlight appunto – per Chiron non è semplicemente la sua natura di omosessuale, sarebbe troppo banale (e questo film non lo è, soprattutto dal punto di vista della regia), ma è una condizione umana quasi di salvezza. Quello che intendo è che sotto la luce del sole, la strada degli uomini non esiste, in quanto assorbita dalla violenza, la stessa violenza che Chiron sceglie nel passaggio da Chiron a Black. Kevin raccontava di essere stato egli stesso in galera “per la solita merda in cui finiamo tutti”, e poi ne era uscito perché si era creato una famiglia. Ma lo stesso Juan che era un criminale era “blu”. Quindi cos’è il blu? È l’emozione umana, forse.
Il regista di colore Barry Jenkins ha tratto la sceneggiatura del film dal testo drammaturgico In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney. Il film ha vinto ben tre Oscar: Miglior film (aprendo una diatriba alquanto imbarazzante alla cerimonia con La La Land), Miglior attore non protagonista per Mahershala Ali (il primo attore nero musulmano a vincere una statuetta), e Miglior sceneggiatura non originale. Si potrebbe discutere sul fatto che il duo nero-gay sia un tema così intoccabile nell’America delle disuguaglianze sociali che il premio a Miglior film sia stato dettato dal “politicamente corretto”. Tuttavia al di là di qualche aspetto criticabile che si potrebbe muovere alla sceneggiatura – mi riferisco per esempio alla battuta di Juan “puoi essere gay, ma non farti dare del frocio”, che sembra poco naturale detta da un criminale, ma questo è un film contro certi stereotipi per cui non ha importanza – merita senz’altro gli Oscar che ha ricevuto, e soprattutto sarà interessante seguire i prossimi lavori del regista dopo questo secondo lungometraggio che lo ha tratto fuori dall’anonimato.
Lavinia Consolato