Seconda meravigliosa prova della Rassegna “Il Cortile” con un incredibile Vincenzo Ricca a Messina
La soffocante serata di infernale calura del 24 luglio non ha fermato spettatori numerosissimi e coinvolti, presenti alla seconda meravigliosa prova della Rassegna “Il Cortile”, in un perfetto collage ad incastro, fra testo, interpretazioni e direzione.
La recensione
Natale, nato in quella data di presagio, conosciuto come “Cirasedda”, una delle anime “mangiate e vomitate” di una Catania marginale – per dirla con il regista Nicola Alberto Orofino – dal quale promana l’olezzo delle locali carnezzerie, è esemplare di cittadino non conforme,ma autentico, ancora in grado di provare meraviglia, non costituisce pertanto eccezione ma paradigma.
Cirasedda, un incredibile Vincenzo Ricca, in maglietta a righe, bermuda e piedi nudi, adora, come fosse una madonna, quella madre dal volto bianco (un candore lunare che contrasta con il mestiere,quello più vecchio del mondo, che svolge, e, in uno, è sintomatico di quella patologia che la sta, poco a poco, divorando, e che avrà parte nella svolta esistenziale del protagonista). Attorno a quel guscio domestico regolarmente violato, su quell’uscio che lo accoglie, quasi liquido amniotico, separato dal resto della comunità da una tenda plastificata tout court, sta un mondo arcaico semplice, che vive sulla strada e colleziona figurine di calciatori, che si innesta in una dimensione corale, misura di un “modus vivendi ”ancora rintracciabile in quartieri degradati, affascinante perché quasi primitivo, ma al contempo disturbante, come i colpi che contrassegnano crudamente i coiti rubati, che colpiscono, e non solo l’apparato uditivo, del giovane, risuonando quali traumatici e selvaggi.
Viene alla mente il personaggio di Marnie, nell’omonimo lungometraggio di A. Hitchcock, alle prese con i rudi clienti, che la derubavano delle attenzioni materne, con esiti altamente nevrotici.
Prodotta da “Lavorare d’incanto”, la splendida piece si è posta nel solco già tracciato con le pregresse rappresentazioni della pregevolissima Rassegna, tutte scarnificate e essenziali, con scenografie quasi nude, a simboleggiare la necessità di ritornare ad un teatro di narrazione, intessuto di tematiche etico-sociali, concentrato sulla resa attoriale, supportata da una solida direzione e con alla base uno script denso .Non necessita altro, per questa tipologia di rappresentazioni, se si esclude qualche elemento scenico orientativo, o funzionale alla comprensione della storia.
Nel caso di specie, sul palco, ad ausilio dell’eccellente resa attoriale, quella del giovane Vincenzo Ricca, si sono allocate una torcia, una guantiera di dolci tipici del catanese, le minne di Sant’Agata, e indumenti accatastati in un angolo, quelli dismessi, nell’incipit, dal personaggio in scena, strettamente essenziali al dipanarsi della piece, che sul finale, infatti, vede Cirasedda, fattosi Natale, rindossare tali abiti cittadini, o quantomeno, consoni alla sua nuova condizione, che si va delineando.. una novella esistenza, coronata da una laurea e un trasferimento nella città del padre naturale, tal Gioacchino, già particolare “cliente” della madre, intanto venuta a mancare, che con lui si intratteneva per un tempo dalla durata non canonica (almeno quattro ore) rispetto a quella comunemente destinata all’esercizio della prostituzione, e si agghindava per l’incontro settimanale, che le dava respiro, pur se momentaneo, distraendola da quella squallida routine, che la stava perdendo a se stessa.
Ed erano allora regalini anche per Natale, dolci e cibarie, un’attenzione particolare, una cura preziosa, che se ha insospettito il pubblico, difficilmente avrebbe potuto condurlo ad una chiusa di tal fatta.
Dicevo dell’amore filiale incommensurabile verso quella donna, che aveva anche forte vocazione materna, come emerge dai racconti, un flusso inarrestabile in stretto dialetto catanese, sovente in guisa di nenia, cantilena, con parole ripetute ossessivamente, a mitraglia, in una reiterazione non di certo casuale, ma altamente significante.
Cirasedda, così appellato per la sua innocente dolcezza, ci ha immesso in quell’universo di adolescente difficile, solo per usare un eufemismo, il proprio, che condivide con quell’essere adorato, al quale “perdona” quell’intrattenersi con i clienti, riesce ad andare oltre questa eccezionale figura – che tanto di finzione non è – come da postuma rivelazione del regista, il sorprendente, da una” mise en scene” all’altra, e brillante Nicola Alberto Orofino, sempre all’altezza della propria meritata fama e che, anzi, è riuscito una volta ancora a superarsi.
La drammaturgia, di eccelsa fattura, riferibile a Alice Sgroi e Roberta Amato, artiste eclettiche, che si cimentano con esiti sempre ragguardevoli in ruoli sfaccettati dell’universo teatrale, é stato di sicuro punto di partenza validissimo per la costruzione di un’opera performativa che si è insinuata nei meandri più reconditi delle coscienze addomesticate, o sopite, di perbenisti e ignavi, che esprimono giudicante sprezzo per quel mondo parallelo, altro, rispetto al proprio limpido consesso, o, se va bene, lo ignorano,come non esistesse,non prendendo posizione nei riguardi di quello svantaggio sociale .
Lunga vita, allora, Al Cortile Teatro Festival, che, con il suo Direttore artistico, Roberto Zorn Bonaventura, prosegue instancabile, in quel sito identitario che dà nome alla Rassegna, il mitico Cortile del Palazzo Calapaj D’Alcontres, il proprio percorso, che è di ricerca e formazione permanente in ambito teatrale e non solo, lungo un cammino irto di ostacoli, in una realtà disattenta al merito, con il supporto di Strutture, Associazioni e Esercizi di ristorazione, gemelli in resiliente resistenza, perchè fatti di persone pregne di passione.