La recensione. La superba scrittura di Giusi Arimatea, l'ottima interpretazione di Mauro Failla e la determinante regia di Giovanni Currò
MESSINA – Si è chiusa con la prima nazionale di “Una vita a cottimo”, di Giusi Arimatea, con Mauro Failla e con la regia di Giovanni Maria Currò, la rassegna ClanDestini, organizzata dal Clan degli attori – ClanOff Teatro al MuMe, il museo regionale di Messina.
La recensione: Una madre castrante, un figlio incompiuto, ritratti consueti
L’ultima “esposizione” del ClanOff Teatro al Mume lascia il segno per la caratterizzazione del protagonista, con le sue sfaccettature, stratificate e sepolte sotto una coltre di imposizioni normative e di grigiore dei diktat materni. Magistralmente composta nello script drammaturgico, sapientemente resa dall’interprete diretto egregiamente, il tutto è restituito allo spettatore con armonia in questa meritoria produzione Clan degli Attori.
Aleggia, più che in sottofondo, la rinuncia ad una esistenza, che è dunque passiva “tout court”, del personaggio rappresentato, e la storia, che mano a mano si dipana – fra detti e sottintesi – con un canovaccio che l’autrice ha orchestrato, attratta dalla potenza del ruolo e al quale il pubblico non mostra alcuna resistenza, ma si affida, costituisce spunto e analisi di interesse sul vivere quasi inconsapevolmente, esserci nostro malgrado.
Il morbo della rassegnazione travolge quella vita fra eccesso di arrendevolezza e trasfigurazione e fantasticherie e l’uomo non è di certo artefice indiscusso della sua sorte, apparendo quasi quale maschera, simbolo di una (colpevole e) incompiuta esistenza.
Giusi Arimatea è oramai una conferma e la performance, proprio grazie alla valente scrittura è risultata prima classificata al Premio Nazionale di Drammaturgia “Aldo Nicolaj” di Fossano, seconda al Concorso Teatro in cerca d’autore di Avezzano e selezionata al Nuovo Teatro San Paolo di Roma e al Premio Nazionale “Ercole Patti “di Trecastagni. Riconoscimenti di certo meritati per una drammaturgia asciutta, ove ogni termine è soppesato e utilizzato sempre con ammirevole appropriatezza.
Non si possono che lodare, ancora, l’interpretazione di Mauro Failla, in una resa encomiabile, e che difficilmente potrà scordarsi, in grado di restituire una figura umana esemplare che si mantiene in equilibrio dondolandosi quietamente in una sopravvivenza irrisolta, e la regia di Giovanni Maria Currò, discreta ma determinante nel tratteggiare una vita vissuta “alla finestra”, nella quale non è dato ravvisare alcuna intima partecipazione.
Anche il disegno luci dello stesso G. M. Currò, perfetto, impreziosisce la piece, così come la scenografia e i consoni costumi della bravissima Cinzia Muscolino, che non sono di certo di contorno, ma essenziali alla resa del povero contesto, con quella cameretta ,con letto e comodino, e semplice abat jour, e un altro ambiente, un salottino, con due sedie, su cui sono poggiati un soprabito maschile e una vestaglia (quella di mammà, e in terra le sue pantofole, a delimitare uno spazio territoriale che le apparterrà, oltre la vita terrena) e un tavolino, con un vasetto portafiori , in uno agli abiti anonimi dell’unico attore in scena.
Applausi convinti, grande partecipazione dei fruitori che numerosi hanno espresso gradimento.
Un gran finale, questo del Clan – Off, con un’opera teatrale superba, che, può ben dirsi, ricalchi, senza ereditarne gli eccessi, lo schema filmico dello Psyco hitchcockiano, con quel figlio schiacciato da una madre sciaguratamente potente, estrema nel suo corpo possente, di un quintale, come nella sua sordida dedizione al denaro, che non lascia spazio ad alcun genere di amore, né nei confronti del coniuge, camionista, prematuramente deceduto, che maledice per averli lasciati privi di sostentamento, né dell’unico figlio, martire, che indirizza verso lavori manuali sempre differenti, pagati secondo unità di rendimento, simboleggiati in scena da una sorta di attrezzo-manubrio.
E cosi, Vincenzino diviene una propaggine di Mammà, che ama e detesta in ugual misura, interiorizza le sue meschine regole, che non includono di certo alcun diversivo che possa allietare la vita, poiché avrebbe un costo non strettamente necessario, esclude la possibilità di costruirsi una vita, con la desiata Bettina, figlia dell’edicolante (ove acquista le due uniche copie di un quotidiano, l’Unità, che riuscirà a leggere in vita sua) che rimarrà un sogno ad occhi aperti soltanto, sfumando, alfine, in un personaggio di fantasia, tale Maria, per tacitare le richieste dei colleghi in tal senso. Lo smarrimento e il dolore riscontrato negli occhi di Mammà, alla richiesta di voler portare a cena fuori Bettina, valgono, infatti, a dissuaderlo per sempre, e a rendere chiaro come nella sua vita ci sia posto solo per il lavoro e la Madre.
Se l’atto d’amore più grande di una madre è rendere liberi i propri figli, Mammà, con il suo egoismo gretto e meschino ha fatto di Vincenzino solo il suo schiavo, in condizioni di fruire, e a costo zero, dell’incanto del mare solo di nascosto, una volta nella vita, profittando di una giornata di sciopero dal lavoro.
Altre figure della misera esistenza del protagonista sono rievocate nel monologo…,l’amato padre, con il suo camion, che non è possente come credeva, il prete maniaco, che dovrebbe indirizzarlo alla vita clericale, stimolando la sua vocazione, e, invece…il figlio di una certa vedova, posto a modello dalla mamma, i cugini calabresi, che vorrebbero coinvolgerlo in affari poco puliti, il matrimonio di parenti, occasione dell’unica frequentazione di un ristorante, ove Vincenzino scopre il ballo e la musica, e la madre si ingozza..
Le canzoni degli anni 70’, dei Cugini di Campagna, di Alan Sorrenti, etc, campeggiano a tratti, rappresentando il miraggio di una esistenza altra, normale, che il finale, davvero spiazzante, porta a dissolvenza, mostrandoci un Vincenzino che ha interiorizzato le insane abitudini e il generale modus vivendi di Mammà e, pur chiedendosi se quell’unico regalo fatto alla genitrice, oramai morta, un voluttuario rossetto rosso, (chissà che non la porti a sorridere) fosse davvero non necessario, ne assume anche i panni, sdoppiandosi anche nella rappresentazione, parlando con la Sua voce, pronunciando quelle Sue agghiaccianti sentenze, precedute da un tuono, o, più semplicemente non reputando la domanda utile, non rispondendosi neanche.
Un plauso… per questa vita….semplicemente spesa a cottimo.