L’importanza d’un gesto minuscolo, cliccare su un tasto, si è enormemente accresciuta e riempita di nuove valenze
di Rosamaria Alibrandi*
Dall’inizio degli anni Duemila l’importanza d’un gesto minuscolo, cliccare su un tasto, si è enormemente accresciuta e riempita di nuove valenze.
Per definire il terremoto provocato dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni referendarie si è parlato di “cliccocrazia”, lemma che definisce l’idea di esercitare un potere decisionale diretto votando in Internet tramite un clic del mouse. Resta da verificare se cliccocrazia equivalga a democrazia, o solo anche a esercizio democratico del diritto-dovere di voto.
È un dato di fatto che siano bastate due raccolte digitali (per eutanasia legale e cannabis per uso personale) per raggiungere il numero di firme previste dalla Costituzione per depositare presso la Cassazione i quesiti referendari, in attesa dell’iter burocratico che avrebbe dovuto condurre alle urne quest’anno, se la Consulta non li avesse dichiarati inammissibili. Restano accese le polemiche sui referendum, la cui organizzazione è stata di recente semplificata grazie al passaggio decisivo dell’emendamento del 12 agosto 2021 per la raccolta firme online, che stabilisce che la firma per raggiungere la fatidica soglia di 500mila possa essere apposta anche mediante l’identità digitale (SPID).
L’Italia si sta trasformando in una cliccocrazia?
Secondo parti consistenti della politica e dell’opinione pubblica, la possibilità di raccogliere in formato digitale le firme per i referendum consente lo strangolamento della democrazia parlamentare, perpetrato grazie alla complicità dei social network, e della cosiddetta “democrazia digitale” cara ai movimenti che consultano i cittadini per ogni decisione politica sulle piattaforme online. Per altre, se pur sia vero che la raccolta delle firme in formato digitale favorirà l’aumento dei quesiti referendari, non è in contrasto con i principi della Costituzione: qualora una proposta venisse approvata e sottoposta a votazione, il quorum per l’esito favorevole di un referendum resterebbe del 50%+1 dei votanti e la consultazione avverrebbe secondo la prassi, nei seggi, in base a regole fisse. Inoltre, poiché ogni raccolta di firme dimostra come molti cittadini ritengano indispensabile un intervento politico sul tema per il quale si spendono, il Parlamento potrebbe essere incentivato a ben funzionare, specie nel suo ruolo principe, l’attività legislativa; anche se, considerati gli ultimi e rilevantissimi eventi politici, quest’ultimo punto assurge quasi a dogma.
La questione del voto elettronico
E, da una professione di fede a un’altra, possiamo credere di essere di fronte a una democrazia rinnovata?
L’uso della firma digitale dimostra che, anche in politica, la società attuale non può fare a meno delle risorse tecnologiche, della connessione, di una burocrazia più snella. Ma, pur non volendo demonizzare la digitalizzazione, la questione del voto elettronico genera molte perplessità. Anche se i grillini lo considerano uno strumento indispensabile per aumentare la partecipazione elettorale, gli altri partiti e il governo pensano che sia impraticabile oltre che pericoloso. Sperimentato in vari Paesi, ha prodotto esiti infausti, risultando manipolabile al punto da essere considerato a rischio di violazione della cyber security dall’Enisa.
Tuttavia, nonostante la “bulimia referendaria” sia favorita dalla firma digitale, la procedura telematica non esonera i promotori dagli oneri previsti dalla legge: i limiti di ammissibilità fissati nella Costituzionevengono verificati dalla Consulta e il quesito referendario può essere posto solo su disposizioni esistenti, al fine di modificare (o eliminare) una normativa vigente. Ciò non ha comunque impedito che la Spid Democracy e gli scossoni inferti al Parlamento su temi fondamentali accelerassero il passo dei “cliccocrati”, convinti che ogni progetto possa trovare realizzazione a colpi di clic.
Se è vero che “il voto elettronico non garantisce indipendenza, unicità, correttezza e autenticità del voto; si presta a gravi rischi di manipolazioni e anche di infiltrazioni”, come afferma Marco Di Maio, la trasformazione della nostra Repubblica in una cliccocrazia andrebbe contrastata.
Il fenomeno di “disintermediazione”
Già nel 2019 Silvia Caianiello scriveva che Internet ha distrutto le forme di mediazione politica del Novecento, e ne ha instaurate di meno trasparenti, consolidando il potere dei suoi “signori feudali”, poche e potentissime compagnie private che, in cambio dei servizi offerti, inducono a rinunciare all’uso consapevole dell’esercizio della scelta. La rete non è mai stata veramente democratica. L’ideale democratico prevedeva un confronto libero e pluralistico delle opinioni; la rete ha invece accelerato il fenomeno di “disintermediazione” sgretolando l’autorità dei partiti e del parlamento, che erano appunto i tradizionali “mediatori” delle istanze politiche. Leforme di organizzazione che li hanno sostituiti, quali nuovi corpi intermedi che stanno mutando le modalità della rappresentanza politica, poiché Internet è essenziale per la loro pratica, aprono la strada alla costante appropriazione delle idee da parte di un capitalismo predatorio. Miliardi di persone usano servizi online, e chi li gestisce può legalmente attingere ai loro dati: si aprono spaventosi scenari rispetto alla manipolazione degli utenti. Il capitalismo degli anni Duemila ha un nuovo, infinito, materiale grezzo da sfruttare, i “data”. E se il tentativo che si sta operando su Internet è proprio “catturare” la vasta ricchezza delle opinioni della moltitudine per sfruttarla sia economicamente che politicamente, la libertà dello spazio sociale è a rischio.
Ulteriore rischio è un’inflazione di referendum con continua chiamata della popolazione al voto, proprio mentre è in atto il più consistente allontanamento dalle urne dal secondo dopoguerra a oggi. Si potranno prevedere aggiustamenti, come l’innalzamento del numero delle firme senza abbassare il quorum, ma sarà difficile impedire che ogni referendum attribuisca un potere enorme a chi formula il quesito referendario. Il paradosso è che alla cliccocrazia, se basta un referendum, non serve un governo: ma la democrazia diretta è tutt’altro, e non si sostanzia solo nel rispondere sì o no a una formula.
Quando la deriva demagogica è sempre possibile, occorre anzitutto capire chi stabilisca, dietro le quinte, i temi sui quali mobilitare l’interesse pubblico; quindi, se i cittadini vogliano essere “seguaci” o protagonisti delle scelte politiche.
* Rosamaria Alibrandi è funzionario del Dipartimento di Economia all’Università di Messina. Dottore di Ricerca in Storia delle Istituzioni politiche e giuridiche, autrice di cinque monografie e saggi su riviste italiane e straniere. Collabora a Lavoce.info rivista bocconiana di Economia e collabora a Il Ponte di Firenze.