Spettacoli, convegni , coinvolgimento della piccola comunità collinare dei Peloritani
Questa sera con Mari di Tino Caspanello, che tra maggio e giugno scorsi è stato in scena per un mese intero al Teatro Atelier di Parigi, si chiude il 1° Pubblico Incanto Artheatre Festival svoltosi per dieci giorni di seguito tra i paesini collinari dei Peloritani di Pagliara, Pagliara Rocchenere e di Locadi che le migrazioni hanno ridotto a complessive ottocento anime. Un piccolo Festival ideato dallo stesso Caspanello e Cinzia Muscolino attrice e sua compagna di vita, rivolto in particolare alla nuova drammaturgia, che parte già col piede giusto, e per la qualità degli spettacoli proposti, e per il modo come le maestranze locali sono riuscite a dare una scossa a dei bei luoghi collinari che rischiavano di diventare solo dormitori. Gli spazi teatrali erano affollati, anche di forestieri, si respirava un’aria nuova e già molti paesani pensavano al tempo in cui le loro case venivano affittate ai turisti estivi entrando in competizione con i vicini luoghi marinari di Roccalumera, Furci e Nizza di Sicilia. Non ci soffermeremo su Malastrada di Tino Caspanello, né su Dissonorata di Saverio La Ruina e neppure su Mamma di Annibale Ruccello, già recensiti in passato, ma sui nuovi spettacoli presentati al Festival. Come La ricetta, nuovo lavoro del prolifico Dario Tomasello, oscillante tra il noir di Ruccello e il funambolismo di Almodovar, messo in scena in modo agile da Vincenzo Tripodo e interpretato da tre giovani e brillanti attrici di Messina quali, Ivana Zimbaro (un’Angela ninfomane in continua crisi mistica), Simona Fiordaliso (sua sorella Brigida, attricetta sull’orlo d’una crisi di nervi) e Giada Vadalà (una Gianna fidanzata di quest’ultima, alla guida d’un Tir per raggranellare un gruzzolo e aprire una scuola di teatro per la sua amante). Alla bravissima e commovente Arianna Scommegna invece è sufficiente una sedia, due spot, un bicchiere d’acqua, un vestito lungo scollato di colore marrone per calarsi nei panni di La Molli, senza la “y”finale, anche se nel finale riprende le fila del noto personaggio joyceano. Un monologo scritto da lei e da Gabriele Vacis, pure regista, su una donna di oggi che aspettando il marito che non torna, parla a ruota libera per un’ora, anche in milanese, toccando tutte le corde dei sentimenti con un’infinità di toni vocali ed espressioni del viso fino al pianto, mettendo insieme il puzzle dei suoi amori, consumati o andati a vuoto, canticchiando motivetti di note canzoni dietro le quali si scorge una certa insostenibile leggerezza dell’essere che le dilania il corpo e l’anima. Ha lasciato il segno ‘A cirimonia di Rosario Palazzolo, diretto e interpretato da lui e Anton Giulio Pandolfo, su una coppia al maschile anche se uno dei due, a turno, dovrà vestirsi da donna con abito nuziale e celebrare un anniversario tragicomico tra una montagna di robe vecchie e chincaglierie, durante il quale vengono a galla incesti assurdi e vite violente, espressi in un dialetto palermitano che amplifica solitudine ed emarginazione, mentre un valzer tipo mantra riecheggia durante i sessanta intensi minuti di questo singolare spettacolo.