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La rubrica a cura di Confedilizia Messina
La crescita del prezzo delle case italiane è la seconda più bassa d’Europa
Spesso il sentire comune non corrisponde ai dati reali e capita che le statistiche smentiscano una qualche percezione. L’andamento dei prezzi degli immobili ne è un esempio. I numeri di Eurostat ci dicono che in Europa le case italiane sono quelle che sono rincarate meno dopo quelle finlandesi. Il confronto è con il 2015: da allora al primo trimestre del 2024 il loro prezzo è cresciuto dell’8,6%, quindi molto meno dell’inflazione, che è stata, in questo lasso di tempo, del 19,1%, mentre nella Ue in media è salito del 49,1%.
I dati italiani sono lontanissimi da quelli record di alcuni Paesi dell’Est Europa. In Ungheria l’incremento dei prezzi in questi 9 anni è stato addirittura del 187,9%, ovvero i prezzi degli immobili sono quasi triplicati, mentre in Lituania sono saliti del 127,7% e nella Repubblica Ceca del 114,3%. Molto importante è stato anche l’aumento in Portogallo, +112,5%, mentre in Spagna è stato del 53,2%, poco sopra la media Ue. Gli immobili tedeschi hanno visto incrementi del 43,8%, quelli francesi, invece, minori, del 26%, ma comunque superiori a quelli visti in Italia.
Naturalmente c’è differenza tra alloggi appena costruiti ed esistenti. Nel primo caso i rincari in Italia sono stati maggiori, del 24%, ma pur sempre i secondi più bassi d’Europa, considerando che in media nell’Unione europea sono stati del 57,7%. I prezzi degli immobili esistenti, che sono protagonisti della grande maggioranza delle transazioni, sono invece saliti solo del 5,3% e anche in questo caso solamente in Finlandia si riscontrano numeri più bassi.
Aumenti inferiori all’inflazione anche tra il 2020 e il 2024
Anche il confronto con i mesi appena precedenti al Covid vede i dati italiani in posizioni molto simili: in 4 anni, tra l’inizio del 2020 e l’inizio del 2024, i prezzi degli immobili nel nostro Paese sono cresciuti del 9,3%, mentre l’inflazione è stata nello stesso periodo del 16,4% e in Europa il prezzo di una casa è salito del 19,9%. In questo caso anche in Svezia e in Germania gli incrementi sono stati inferiori a quelli italiani: tuttavia in questi Paesi, a differenza che in Italia, i prezzi erano aumentati molto negli anni immediatamente precedenti.
Se poi il paragone viene effettuato, come fa Eurostat, con il 2010, appena prima della grande crisi dell’edilizia, nel caso dell’Italia c’è addirittura una caduta nominale dei prezzi, che sono scesi del 7%. In nessun altro Paese, tranne la piccola Cipro, è accaduto qualcosa di simile. Forse anche perché in nessun altro Paese la tassazione sulla proprietà immobiliare subì negli anni successivi al 2010 un incremento simile a quello visto in Italia, dove, con la manovra del governo Monti di fine 2011, vi fu quasi la triplicazione dell’imposta patrimoniale.
Pure l’Ocse sottolinea come i prezzi reali, quindi al netto del carovita, delle case siano diminuiti in Italia e come addirittura i costi nominali siano saliti meno dei redditi. Il rapporto tra il prezzo di un immobile e le entrate di un individuo (salario, pensione, profitto ecc.) è infatti sceso mediamente del 13,3% tra il 2015 e il primo trimestre 2024. Significa che se, per esempio, 9 anni fa si poteva comprare una casa di un certo valore con un certo reddito, oggi si può acquistare lo stesso immobile solo con una parte di quel reddito.
Lo stesso trend si è notato in alcuni Paesi dell’Est come Romania e Bulgaria e, in misura minore, anche in Svezia e Francia. Tuttavia c’è una differenza fondamentale, nella maggioranza dei casi questo è stato dovuto a un aumento dei salari e dei redditi particolarmente sostenuto, al punto da superare l’incremento dei prezzi delle case, che pure c’è stato. Nel caso italiano, e in parte anche in quello francese, il potere d’acquisto non è cresciuto, è rimasto stagnante, ma sono i valori degli immobili a essere diminuiti.
Imputazione delle spese condominiali pendenti, nuova pronuncia della Cassazione
L’imputazione, al vecchio o al nuovo proprietario, dei contributi condominiali pendenti è questione assai controversa. Se, infatti, nei rapporti tra condominio e acquirente di un’unità immobiliare opera la regola di cui all’art. 63, quarto comma, disp. att. cod. civ. secondo cui “chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente” (e l’anno è da intendersi come anno di gestione, non come anno solare), nei rapporti interni tra acquirente e venditore possono verificarsi ipotesi di dubbia interpretazione. Il problema non è di poco conto: si pensi, ad esempio, alle ingenti spese necessarie per il restauro della facciata condominiale, spese che vengono deliberate in un dato momento ma la cui pratica attuazione viene differita nel tempo, quando l’immobile è magari già stato venduto, oppure a contributi maturati allorché il condomino alienante era ancora proprietario dell’unità immobiliare, ma che vengono approvati con delibera successiva all’alienazione. La legge n. 220/2012 di riforma della disciplina condominiale nulla ha innovato su questo particolare aspetto. Resta quindi ancora aperto il problema. Sul punto si è pronunciata, di recente, la Cassazione, con l’ordinanza n. 13781 del 17.5.2024.
Secondo i Supremi giudici “l’obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, nonché per la prestazione dei servizi nell’interesse comune, sorge già nel momento del compimento dell’attività di gestione (e dunque nei confronti di chi sia condomino in tale epoca), e non invece nel momento successivo in cui le stesse spese siano poi approvate e ripartite in sede di consuntivo”. Al contrario, le spese per l’esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione delle parti comuni, gravano su chi sia condomino al momento dell’adozione delle “delibere che abbiano approvato l’intervento”. Si tratta di una tesi che, seppur negli ultimi anni sia andata consolidandosi (si veda, da ultimo, Cass. ord. n. 21094/2023), non è, però, l’unica.
Invero, sulla questione si registrano altri due filoni interpretativi, peraltro fra loro opposti. Secondo, infatti, un indirizzo che trova la sua fonte nella sentenza della Cassazione n. 23345 del 9.9.2008, l’obbligo dei condòmini di contribuire al pagamento delle spese condominiali sorgerebbe nel momento in cui tali spese siano effettivamente eseguite e non semplicemente approvate, “atteso il carattere meramente dichiarativo di tali delibere”, con la conseguenza che, in caso di compravendita, tenuto alla spesa sarebbe colui che risulti condomino al momento in cui si concretizzi l’obbligo di corrisponderle. Secondo un altro indirizzo che deriva da altre sentenze sempre della Cassazione – come la n. 10370 del 17.7.2002 e la n. 22034 del 2.9.2008 – l’obbligo dei condòmini di contribuire al pagamento degli oneri condominiali sorgerebbe, invece, per effetto della delibera assembleare di approvazione, di tal che, nell’ipotesi di vendita di una unità immobiliare sita in condominio, tenuto alla contribuzione sarebbe colui che rivesta la qualifica di proprietario allorché la spesa venga deliberata. Ciò, in quanto le spese – secondo questa tesi – devono rimanere a carico di chi abbia concorso con il proprio voto ad approvarle. La recente ordinanza n. 13781/2024 esprime dunque una soluzione di compromesso. Il ragionamento trae origine dalla sentenza della Cassazione che inaugurò questo nuovo orientamento – la n. 24654 del 3.12.2010 – e che si basava sul seguente assunto: la delibera relativa alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni ha carattere “costitutivo”, in quanto ha ad oggetto interventi che “debbono essere preventivamente” determinati dall’assemblea; al contrario, la delibera concernente la manutenzione, la conservazione, il godimento dei beni comuni e l’erogazione dei servizi condominiali ha valore “dichiarativo”, giacché riguarda spese “necessarie”. Logica conseguenza di tutto questo è che mentre nel primo caso non si può prescindere dalla volontà assembleare, così non è nella seconda ipotesi; conclusione, questa, che giustifica la differente individuazione del momento di insorgenza dell’obbligo di corresponsione dei contributi condominiali. In ogni caso, resta sempre valido il consiglio di regolamentare, in occasione della vendita di un immobile, le eventuali pendenze condominiali con clausole chiare ed esaustive, così da prevenire possibili discussioni.
Da Confedilizia Notizie