Il racconto dello scrittore messinese Guglielmo Pispisa. Sullo sfondo una città travolta dal coronavirus e dalla sua mediocrità
Di seguito il racconto dello scrittore messinese Guglielmo Pispisa
Tuuu bella e triste tuuu
La voce acuta di Gianni Bella riempiva l’incrocio deserto sotto i balconi di casa di Juri. Veniva fuori dalle casse di una Fiat Punto con la portiera sinistra aperta. Un signore col telefonino girava intorno all’auto riprendendola da ogni lato per chissà quale motivo.
Juri non tornava a casa da giovedì, quando lo aveva chiamato sua moglie, supplicandolo di fare attenzione, perché la situazione stava diventando pesante, il telefono squillava in continuazione ed erano quasi sempre giornalisti. Era pure apparsa una scritta di insulti e minacce sul muro davanti al loro portone. La “situazione” era cominciata una decina di giorni prima, quando in rete aveva preso a circolare una lista di nomi di persone che erano partite per la settimana bianca facendo scalo in un aeroporto della zona rossa poco prima del lock down completo del paese a causa del virus. Di ritorno non si erano autodenunciati alle autorità sanitarie come avrebbero dovuto, ma la cosa era venuta fuori lo stesso, e nel modo peggiore, perché uno dei gitanti si era ammalato, con tanto di ricovero d’urgenza, ed era risultato positivo al virus. Il fatto e la lista erano divenuti di dominio pubblico nel giro di un post, condiviso migliaia di volte. Il nome di Juri era su quella lista.
Se n’era accorto quando avevano cominciato a tempestarlo di telefonate amici e parenti chiedendogli se stesse bene e che cosa gli fosse venuto in mente di andare in vacanza sulla neve proprio in mezzo a tutto il casino scoppiato per la pandemia. Juri li aveva rassicurati tutti: lui in settimana bianca non c’era andato, non ci aveva nemmeno pensato, in realtà. Su Facebook dicono di sì, gli avevano risposto, ci sono pure le fotografie. Juri non aveva l’account Facebook e così gli avevano inviato su Whatsapp la foto che un suo conoscente teneva sui suoi profili social senza che nemmeno lui lo sapesse: abbracciati in tuta da sci con un rifugio dietro le spalle. Ma sono state scattate l’anno scorso! aveva protestato. Niente da fare, non c’era stato verso, anche perché il suo amico, al viaggio incriminato, aveva partecipato davvero. Ormai il tam tam era partito e lui era stato additato insieme a tutti gli altri come untore, irresponsabile, idiota viziato membro della casta che comanda da sempre in città. Massoni-porci-figlidipapà-larovinadiquestopaese. Da più di due mesi la gente non poteva uscire se non per buttare la spazzatura, approvvigionarsi e far pisciare il cane ed era in piena e costante crisi di nervi, anche più del solito. Il signore col telefonino e l’auto da cui Gianni Bella cantava a manetta invece sembrava tranquillo, come se tutta quella storia, il virus, le migliaia di morti, la quarantena a tempo indefinito ordinata dal governo, non lo riguardasse affatto. Fischiettava, riprendeva fantasmi col telefonino e fumava. Juri non ne era stupito, lo conosceva di vista e sapeva che non ci stava tanto con la testa da quando qualche anno prima aveva perso un figlio. Leucemia, gli sembrava di ricordare.
Negli ultimi giorni, Juri aveva dormito in negozio: lo teneva chiuso proprio da giovedì e aveva una branda nel retrobottega, ma non ne poteva più di rimanere confinato lì dentro con la saracinesca abbassata nutrendosi di merendine. Stavolta Carla, sua moglie, sempre per telefono, si era mostrata più serena, i giornalisti non chiamavano più, la scritta minacciosa era stata cancellata. Del resto lui aveva parlato con l’azienda sanitaria, con il comune e anche con un sostituto procuratore della Repubblica incaricato dell’istruzione dell’indagine. Che lui non c’entrasse nulla era evidente, quantomeno agli inquirenti istituzionali. Per il popolo della rete il discorso era diverso, gente che credeva alle sirene, alla Terra piatta, alle catene di sant’Antonio su Whatsapp avrebbe di certo diffidato di una smentita circostanziata, perché puzzava di complotto, di depistaggio dei servizi segreti, di gruppo Bilderberg e di chissà cos’altro. E comunque anche se in settimana bianca a quel giro non c’era andato, altre volte invece sì, quella gente la frequentava, era uno di loro e il fatto che stavolta avesse avuto fortuna non lo emendava per nulla. Era feccia anche lui, tanto quanto quegli azzimati sciatori figli del privilegio. Feccia con le Hogan ai piedi e il giubbotto Invicta di tessuto tecnico.
Sentirsi moralmente superiori agli altri, proprio a quegli altri che fino a un momento prima erano in cima alla scala sociale, alla catena alimentare, e poterglielo sbattere in faccia in pubblico, con la stessa sfottente arroganza che solo ieri era stata prerogativa di quelli, era una tentazione troppo grande. Del resto, cos’altro c’era da fare in città per il momento?
Ci sarebbe voluto del tempo per convincere tutti che Juri non aveva niente a che vedere con quella storia, e con molti non ci sarebbe stato verso, sarebbero rimasti arroccati sulle loro convinzioni. Gli bruciava, ma doveva farsene una ragione.
Aveva preso un sacchetto della spazzatura riempiendolo di tutti i resti dei suoi pasti frugali degli ultimi giorni e si era messo in strada dopo le sei e mezza, al primo imbrunire. Dal negozio a casa c’era un chilometro e mezzo e col sacchetto avrebbe dato meno nell’occhio, a patto di non avvicinarsi troppo ai cassonetti. Fino a lì le pattuglie della polizia municipale non lo avevano fermato e nemmeno quelle militari, né era stato additato dagli zelanti guardiani condominiali spesso appostati ai balconi. Ormai era sotto casa. Prima di avvicinarsi al portone si diresse, questa volta sì, ai cassonetti situati sul lato meridionale della piazza sulla quale sbucava la strada. In prossimità, vagolavano curiosi membri di una umanità varia e bizzarramente abbigliata. Un vecchio signore con un completo magenta a scacchi, papillon a pois e scarpe inglesi con sopra ghette bianche chiuse da bottoni neri si avvicinava reggendo il suo sacchetto di immondizia sul pomello intarsiato del bastone da passeggio. Una cinquantenne in tubino nero di velluto, smalto viola alle unghie lunghissime e mascherina chirurgica sul volto aveva appena depositato il suo sacchetto e si stava già allontanando, battendo rapida i tacchi alti sul marciapiede. Un giovane, bardato di sciarpa di seta nera stretta intorno alla faccia e inguainato in una tuta di foggia militare sempre nera tipo NOCS, teneva davanti a sé un robusto guinzaglio di cuoio e si comportava come se all’estremità ci fosse un cane, schioccava la lingua sul palato e mormorava Buono Achille, buono… ma attaccato al gancio non c’era niente.
Juri aveva rallentato per rispettare la distanza di sicurezza mentre il signore anziano aveva gettato il suo involto con uno scatto secco del polso per liberarlo dall’impugnatura del bastone. Il ragazzo col guinzaglio però non aveva avuto la stessa prontezza di Juri nel rallentare. Appena il signore si era voltato, accortosi della vicinanza, aveva cominciato a sbraitare: “Tenga quella bestiaccia lontana dalle mie ghette o la denuncio!”
Il ragazzo non si era scomposto: “Achille è buonissimo. È lei invece che finirà per sputarmi addosso, la smetta.” Il vecchio si era allontanato senza rispondere.
Juri aveva lanciato il sacchetto da dove si trovava, per non rischiare, e si era diretto di nuovo verso casa. In giro non c’era più nessuno, a parte il tipo della Fiat Punto. Rovistare in tasca fino a riconoscere al tatto la sagoma delle chiavi era un gesto talmente abituale fino a pochi giorni fa, che ritrovarlo gli diede una sensazione di conforto, di sicurezza per un lampo di quotidianità riemersa dal buio. Ma poi tornò il buio.
Non si puòòò moriiire deeentrooo E morendo me ne andaaaiiiii
Juri si svegliò in preda a un mal di testa fiammeggiante. La nuca gli pulsava e aveva la bocca impastata. La stanza era in penombra, ma non gli sembrava affatto casa sua, anzi non gli sembrava di averlo mai visto, quel posto. Alle pareti c’era una carta da parati a fiori arancione orrenda e un mobile scuro in fondo, forse un tavolo o una credenza, da dov’era steso non riusciva a capire bene. Fece leva sui gomiti per alzarsi, ma qualcosa lo trattenne. Abbassò lo sguardo: una cintura lo stringeva all’altezza del torace, tenendolo fermo. Man mano che diventava più lucido, nuovi particolari inquietanti si delineavano. Provò a muovere le mani e le gambe, ma era impossibile perché erano fasciate da giri e giri di nastro adesivo telato che gli bloccavano gli arti. Dimenandosi avvertì sulla schiena il disegno sottile e puntuto della struttura su cui era disteso. Una rete nuda da branda, con ogni probabilità. L’aria era satura di fumo stantio, e Gianni Bella a tutto volume imperversava ancora. Essere consapevole dell’odore dell’ambiente, lo indusse a respirare con la bocca, e fu allora che il panico gli si scatenò nel cervello come una muta di cani impazziti e latranti. Aveva il nastro adesivo anche sulle labbra.
Il ritmo cardiaco ebbe un’impennata e Juri andò in iperventilazione per qualche minuto, gli occhi appannati dalle lacrime e la gola secca come una cava di pomice. Passò un tempo che non avrebbe saputo definire, anche perché la canzone continuava ad andare in loop. Ci vollero dieci o forse quindici ripetizioni di quel ritornello perché recuperasse un’oncia di lucidità, ricordandosi in che occasione, di recente, aveva sentito quella canzone.
La fiamma di un accendino balenò alla sua sinistra. L’uomo della Fiat Punto aspirò un’ampia boccata della sigaretta, premette qualcosa sullo schermo del suo telefonino e glielo puntò addosso. Poi cominciò a parlare con voce sommessa. Era in canottiera, seduto accanto a lui.
“Siamo in diretta Facebook. Te lo dico perché devi capire, sai. È importante se capisci prima… Tu e tutti gli altri, è importante. Eravamo così contenti quel pomeriggio, io e Filippuccio mio, ma sai come? Eeehhh, contentissimi. Da quando ci era arrivata quella diagnosi tremenda tra capo e collo non avevamo avuto neanche un minuto di luce, capisci? Come se ci si fosse chiuso un coperchio sopra, e vagavamo a tentoni, cercando un interruttore che non c’era. Non è che fino ad allora la vita ci avesse trattato bene, insomma, mia moglie mancata quando Filippuccio era piccolo e tutto il resto, ma vabbè, non ci lamentavamo. Poi però anche quella bastardata della leucemia dio non ce la doveva fare, no. E invece sì, ce l’aveva fatta. Comunque te la faccio breve. Mesi di terapia, mesi a trattarlo come una porcellana, come un cristallo delicatissimo, come un fiore da innaffiare con due gocce, non troppa luce né troppo poca, aria sì ma vento no, mollichina a mollichina e alla fine il dottore aveva sorriso. Me lo avevano dimesso, guarito. Ancora debole, ma con un altro poco di pazienza tutto andava a posto. E passa una settimana, e passano due settimane e passano tre e quattro e dieci settimane e tutto va bene e noi ci rilassiamo e ce ne andiamo al cinema, che c’era Guerre Stellari e a lui gli piaceva tanto. Spettacolo delle quattro così c’è meno gente, però c’erano tanti bambini che tossivano e tiravano su col naso e io mi preoccupo e penso che forse è meglio se ce ne andiamo ma il dottore aveva detto che potevamo, e avevamo bisogno di normalità e allora rimaniamo. Filippuccio passa due ore sereno, finalmente, anche se ogni colpo di tosse di quei bambini di merda per me è una coltellata, ma perché non se li tengono a casa i genitori, dico io? Ma in fondo il motivo è lo stesso mio e di Filippuccio: per avere due ore di serenità, tanto a chi vuoi che faccia male un colpo di tosse? E te lo dico io a chi… Due settimane dopo Filippuccio era di nuovo ricoverato con la polmonite, e non è più uscito. Capisci quindi perché, lo capisci, testa di cazzo perché non te ne dovevi andare in vacanza e di certo non te ne dovevi andare in giro dopo?”
Juri avrebbe voluto urlare che lui non c’era, che lui non c’entrava niente, ma quello non avrebbe ascoltato e comunque il cerotto gli impediva di parlare. Quando arrivò la prima martellata non poté far altro che mugolare. In attesa della seconda, si voltò verso la parete con quegli assurdi fiori arancioni. Gli vennero in mente le ultime parole di Oscar Wilde, chissà dove le aveva lette: “O se ne va quella carta da parati o me ne vado io.”
di Guglielmo Pispisa
Guglielmo Pispisa, scrittore messinese, ha pubblicato numerosi romanzi, sia a livello individuale che in collaborazione con altri autori, per editori come Einaudi, Mondadori, Marsilio, Il Saggiatore. La sua ultima pubblicazione, un giallo scritto insieme a Jadel Andreetto con lo pseudonimo di Marco Felder e intitolato Tutta quella brava gente, è di recente uscito per Rizzoli.