L'emergenza sanitaria ha ripercussioni enormi sul mondo editoriale. In più, nessuno ormai legge. La situazione è drammatica.
Come occupare il tempo durante la nostra quarantena? Come spendere le giornate che sembrano tutte uguali, scandite solo dai gesti così familiari come mangiare e dormire? Diverse sono le opzioni che tutti noi abbiamo di fronte: c’è chi si dedica alla cucina, improvvisandosi cuoco (o chef, come si dice oggi) e combattendo così la noia. C’è invece chi guarda le serie televisive, in una maratona continua offerta dalle piattaforme streaming come Netflix o Disney+. C’è, infine, chi si dedica alla lettura di un buon romanzo o di un saggio ben scritto. Ma c’è un ma.
In Italia l’ultima opzione sembra del tutto soppiantata dalle prime due. Vale a dire: nessuno più legge, nemmeno in una situazione come quella odierna, dove tutti siamo costretti nelle nostre abitazioni. Ci sono le difficoltà logistiche per la vendita dei libri, certo. Ma l’online è sempre attivo – sebbene non possa mai coprire per la filiera editoriale tutte le entrate in un periodo normale, sia chiaro. Nondimeno, se Decathlon, azienda che vende articoli sportivi, per la grande quantità di richieste che riceve è stato costretto a limitare i suoi ordini online giornalieri a mille (da due giorni sono diventati duemila), risulta evidente che un qualche problema c’è, e riguarda proprio quelli che volgarmente sono chiamati “consumatori” (parola che poco si addice al mondo culturale, invero).
Ma passiamo ai numeri. Al 30 marzo si è fatta una previsione di 23.200 titoli in meno per la drastica riorganizzazione dei piani editoriali, cioè circa il 30% dell’intera produzione italiana. «Accendete un faro sul mondo del libro. Lo state perdendo», dice il presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE), Ricardo Franco Levi. E aggiunge: «È difficile avere una percentuale esatta ma probabilmente, con le librerie chiuse, l’online con problemi di distribuzione e la grande distribuzione che lavora a macchia di leopardo, siamo al 70-75% di calo del volume d’affari».
Con effetti a cascata sulla filiera, s’intende: in base a quanto emerge al 20 marzo secondo le stime dell’AIE, il 61% degli editori ha già fatto ricorso alla cassa integrazione o la sta programmando. «Ben il 98% degli editori (era il 91% la scorsa settimana) ora valuta il danno come significativo o drammatico per l’intera filiera», ha dichiarato Ricardo Franco Levi in una nota di qualche giorno fa. «Rimanere chiusi per mesi – continua Levi – mette a repentaglio qualsiasi bilancio, qualsiasi capacità di sopravvivenza, a partire dagli operatori più piccoli. Sarebbe un dramma economico, culturale, ma anche sociale. Attorno al mondo del libro girano case editrici, autori, traduttori, distributori, trasportatori, promotori, librai».
«I numeri sono impressionanti», dice Enrico Selva Coddé, amministratore delegato di Mondadori Libri Trade. «Da qualunque prospettiva li si voglia guardare, banalmente dimostrano quanto siano importanti, oggi più che mai, gli sforzi di tutti per garantire continuità e per tenere viva la più importante filiera dell’industria culturale italiana».
È per questo che il presidente dell’AIE ha rivolto un appello al governo: «Chiediamo che negli emendamenti ora in discussione siano estesi al mondo del libro i provvedimenti di emergenza che sono stati giustamente previsti per il cinema, lo spettacolo e l’audiovisivo. Il Paese non può immaginare di restare senza teatri o cinema, ma non può nemmeno immaginare di restare senza libri e librerie». Infatti, il decreto approvato il 16 marzo scorso ha previsto un fondo di garanzia per cinema e spettacolo di 130 milioni di euro per il 2020. L’AIE chiede misure per 100 milioni: «Abbiamo indicato una cifra di 75 milioni per il mondo del libro e di recuperare una vecchia provvidenza come credito d’imposta per la carta per 25 milioni, che aiuterebbe il libro fisico».
L’1 aprile Il Manifesto ha pubblicato un appello per la riapertura delle librerie. Tra i firmatari Ginevra Bompiani, Franco Arminio, Gianrico Carofiglio, Paolo Jedlowski, Donatella Di Cesare e Angelo Guglielmi. «Sono giorni che con grande responsabilità gli italiani si mettono in coda, con maschere e guanti, davanti ai supermercati e alle farmacie. Non si vede perché i consumatori di libri sarebbero meno disciplinati dei consumatori di cibo o medicinali», si legge nella nota. «Le librerie aperte non creerebbero le file del supermercato, e darebbero ossigeno all’editoria libraria». E conclude: «Nei giorni passati, ci si è ingegnati a mandare in giro video e musica, per intrattenerci. Grazie, ma sono distrazioni molto brevi. Un libro ti tiene compagnia per tutto il tempo che vuoi. Dateci pane per i nostri denti spirituali. Non di sola tachipirina vive l’uomo».
La Stampa registra invece un aumento delle vendite in Gran Bretagna, «salite nei supermercati del 35% nel giro di una settimana. E la catena Waterstone ha visto un incremento degli acquisti online del 400%». Insomma, c’è da chiedersi se in Italia il problema siano esclusivamente le librerie chiuse e la sospensione dei festival del libro, e non, invece, anche una disaffezione sempre più profonda degli italiani alla lettura.
Non è del tutto inverosimile una decadenza definitiva del libro. Premesso che sono uno di quelli che di libri ne legge parecchi, e i più belli li rilegge anche, tuttavia credo che il problema non riguardi soltanto la lettura in senso tradizionale, sia su cartaceo che su digitale, ma riguarda soprattutto chi i libri li scrive. Certo, il digitale è il futuro, ma non come copia del cartaceo. Ciò può valere solo per i libri già scritti. D’ora in poi la scrittura intesa in senso tradizionale (mi riferisco in particolare alla narrativa) non può non sperimentare la multimedialità. Scommessa non facile…