La cultura siciliana riscopre il dimenticato poeta futurista Giovanni Girbino. A partire da un decennio ormai, si sono moltiplicate le iniziative tese a sottrarre all’oblio l’Autore messinese e a restituire la sua originale poesia al patrimonio letterario, dopo decenni di inspiegabile indifferenza e colpevole silenzio. Di Girbino, o Gerbino come preferiva farsi chiamare, in effetti non vi è significativa traccia nella storia della letteratura italiana, ma è appena il caso di ricordare che nel 1931, con Fortunato Depero, firmava il famoso “Numero Unico Futurista Campari”, vero e proprio manifesto dell’arte pubblicitaria che rappresentò il primo tentativo, peraltro riuscito, di creazioni poetico-visuali e di sistemazione teorica e critica del “fare pubblicità”, anticipando quella che decenni dopo sarà codificata come collaborazione tra l’illustratore e il copy writer, e diventando quindi insostituibile punto di riferimento della giovane arte della réclame. Concorde la critica del tempo nel definire “le pagine concettualmente più interessanti del Manifesto quelle composte con il poeta siciliano Gerbino”, che si rivelò modernissimo manipolatore del linguaggio verbale e straordinario poeta pubblicitario per il quale “un prodotto industriale o commerciale deve essere esaltato con lo stesso stato d’animo con cui si esaltano gli occhi di una donna”. E di Girbino è anche il primo Manifesto futurista della poesia pubblicitaria dove afferma che “per poesia non deve intendersi una filastrocca di parole gettate giù obbligatoriamente, per cantare con voce lugubre le qualità di un prodotto industriale o commerciale vergognandosi infine di assumerne la paternità com’è d’uso, con evidente malafede, in certi rimaioli passatisti, ma vera e propria poesia nel senso più alto della parola”. Figlio di modesti artigiani, Giovanni Girbino nacque a Ficarra nel 1895. Completati gli studi superiori il bisogno bussava alla porta e allora, messe momentaneamente da parte le velleità letterarie, pieno di speranze partecipò al concorso per cancelliere di tribunale, risultando tra i vincitori. La nuova condizione lo porterà a girovagare per varie città del nord Italia. A Milano negli anni Venti conosce, e ne diventa amico, Vergani, Depero, Buzzi, Borghese, Prampolini e tanti altri frequentatori del celebre caffè Savini, abbracciando ben presto da entusiasta sostenitore le idee innovatrici ed anticonformiste del Futurismo. Con Fortunato Depero, in particolare, instaura un forte rapporto, prima ancora che artistico, umano che sfocerà nella stesura del celebre Manifesto, ma preceduto da anni di collaborazione nella produzione della pubblicità Campari che, cosa poco nota, alla rivoluzionaria e originalissima grafica di Depero (è suo il design della immortale bottiglia del bitter) associava gli efficaci slogan di Girbino (Viso di cioccolata/gli occhi: due caramelle) che si sviluppavano come naturale appendice al disegno creativo. Una fitta corrispondenza tra i due, oggi conservata al Museo d’arte moderna di Trento e Rovereto, ritma il loro rapporto dalla fine degli anni Venti in poi, definendo sempre più il rapporto dalla fine degli anni Venti in poi, definendo sempre più il rapporto speciale che li univa. Nota la grandiosità di Depero, la lettura dei carteggi apre squarci inediti e significativi anche sulla figura e l’opera di Girbino che meritano senz’altro una nuova e adeguata ricollocazione nel panorama letterario italiano. Per fatto campanilistico, di quella corrispondenza ci piace segnalare una lettera del 7 ottobre 1934 inviata da Ficarra con cui Girbino informa l’amico Depero delle sue imminenti nozze a Bronte con Tina Zappia. Così come non mancherà anni dopo di partecipargli la nascita del figlio Domenico. Oltre però l’intimo epistolario che coinvolge anche le rispettive consorti, colpisce il continuo scambio di testi, opinioni, commenti. Nel 1933 Girbino invia tra le poesie da pubblicare sul secondo numero di “Dinamo futurista”. Andando indietro nel tempo, al 1928: “Sono pazzo di New York” scriveva Depero a Girbino dalla città americana, dove vi si era recato per aprire una casa d’arte e per la sua attività di pubblicitario, aggiungendo confidenzialmente anche le vicissitudini che avevano accompagnato quel viaggio: il continuo scambio epistolare testimonia come tra i due si fosse formato un vero e proprio cordone ombelicale tanto da influenzarne reciprocamente la creatività. Sempre dal paese natio dove, a giudicare dalla corrispondenza vi faceva spesso ritorno, il 5 luglio 1937 Girbino comunica all’amico Depero di essere in convalescenza nell’amata casa avita di Ficarra e di aver incontrato Marinetti a Catania, accennando anche ad una critica sui futuristi apparsa sul quindicinale “Perseo”. Ficarra è anche oggetto, o meglio soggetto della poesia di Girbino: in alcune sue liriche, pubblicate nella raccolta curata da Marinetti, vi si rintracciano inequivocabilmente panorami e tradizioni familiari e gli abitanti del luogo, alcuni dei quali, oggi molto anziani, ben ricordavano le sue ultime visite in paese, nei primi anni ’60. Senza mai abbandonare la pubblicità, Girbino esordisce come poeta ad Ascoli Piceno con il volumetto “Stonature”, ma il momento della celebrità, secondo quanto scriveva allora il Corriere della Sera, arriva tra il ’26 e il ’28 quando dà alle stampe un certo numero di opere tra cui le pregevoli “La congiura dei passeri” e “Barbara la dattilografa” riscuotendo ampi consensi sulla stampa italiana ed estera da parte di autorevoli critici. Lo stesso Marinetti declamò i versi di Girbino alla radio italiana, a Parigi, Madrid e Rio de Janeiro. Ma a solleticare Marinetti fu in particolare “Il telefono e il telegrafo dell’anima” raccolta per la quale il padre del futurismo omaggiò Girbino addirittura di un “Manifesto dedicato” con tanto di nome e regolamento, una sorta di manuale di istruzioni per meglio godere della poesia di Girbino stesso. Di straordinario spessore è invece “La congiura dei passeri”, una metafora in commedia che si apre con una curiosa dedica a stampa: “Al Duce, usignolo d’Italia” come spesso usava all’epoca. Con poesie e fazzoletti lirici, Girbino collaborò attivamente anche alla rivista milanese “I Giovani”. Trasferitosi al Tribunale di Catania, nella città etnea continuò la sua attività letteraria pubblicando “Fili d’erba”, lavoro che segna l’abbandono del futurismo per seguire la via dell’impressionismo, una evoluzione letteraria che però si trasformò in declino e in oblio. Girbino morirà nella città etnea nel 1969.
Vittorio Lorenzo Tumeo