Un ampio altipiano a ridosso di una parete calcarea e una fitta vegetazione tutt’intorno, popolata da elefanti, ippopotami, orsi, iene e lupi. Non è la descrizione di un tipico paesaggio africano, ma un angolo di Sicilia di duecentomila anni fa riportato alla luce ad Acquedolci, sui Nebrodi, adesso fruibile alla vista di tutti, dopo lunghi e faticosi scavi paleontologici. Il deposito fossile di Acquedolci costituisce una delle più importanti stazioni preistoriche del bacino mediterraneo per la varietà e l’abbondanza di resti osteologici di fauna quaternaria, di mammiferi pleistocenici in particolare. Il sito pertanto viene considerato dagli studiosi un punto di riferimento obbligato per lo studio del Paleolitico Superiore. Ecco come si sarebbe presentata secondo una ipotesi di ricostruzione grafica elaborata da Franco Wanderling. L’individuazione dell’area risale al lontano 1859 grazie all’instancabile attività di ricerca del barone Francesco Anca. Successive indagini furono condotte da studiosi quali Vaufrey tra il 1928 e il 1929, da Tricomi nel 1938. Seguirono Maviglia nel 1941 e Graziosi dal 1943 al 1947. A questi ultimi si deve anche la scoperta, all’interno della grotta di San Teodoro, di cinque sepolture di età epipaleolitica, le prime in Sicilia, che offrono dati di eccezionale importanza per la conoscenza della tipologia fisica ed etnica dei più antichi abitatori dell’Isola. Fin dalle prime esplorazioni però, l’interesse degli studiosi si rivolse alla presenza di abbondanti resti fossili animali precedenti l’insediamento dell’uomo in quest’area. Bisognerà però aspettare il 1982 per dare inizio ad interventi significativi ai fini del recupero, della difesa e valorizzazione della stazione paleontologica più volte minacciata di distruzione prima dell’allora costruenda autostrada e poi all’apertura di una cava. Indagini sistematiche condotte a partire dagli anni ’80 dall’Istituto di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Messina hanno reso possibile addirittura la ricostruzione della situazione paleontologica originale. Nel corso delle campagne di ricerca che si sono succedute negli anni sono state scavate alcune trincee che hanno evidenziato un deposito di bacino lacustre assai ricco di resti fossili di “Hippopotamus”. Scarsa invece la presenza di altre specie che pur vivevano in quell’area. Ma come è stata possibile la conservazione per duecentomila anni? A spiegarlo è la professoressa Laura Bonfiglio, già Ordinaria di Paleontologia presso l’UniMe, coordinatrice del progetto di studio: “Gli elementi scheletrici degli esseri viventi, dopo la morte si possono conservare solo se la spoglia viene ad essere inclusa in un sedimento che la isoli, difendendola dall’azione distruttrice degli eventi atmosferici. Tale processo prende il nome di fossilizzazione”. Fortunate circostanze legate principalmente alle condizioni geomorfologiche hanno favorito la conservazione del deposito lacustre di Acquedolci e all’interno di esse di una grande quantità di resti fossili di ippopotami. La scarsità di resti di altre specie è dovuta al diverso ambiente di vita; mentre infatti gli ippopotami vivevano nelle acque del lago antistante la grotta di San Teodoro e nei cui sedimenti fangosi i loro scheletri venivano inclusi dopo la morte, le spoglie degli altri mammiferi viventi nelle vicinanze, rimanendo esposte sulla superficie del terreno, avevano scarsissime probabilità di conservazione, a meno che, casualmente, qualcuno di essi fosse finito dentro il fango lacustre. L’originalità del talus paleontologico e la straordinaria bellezza del paesaggio hanno suggerito l’opportunità di lasciare in situ gran parte dei reperti con il proposito di renderli accessibili al pubblico.
Vittorio Tumeo