Venticinque anni di Pubblico Incanto: il teatro di Tino Caspanello

Venticinque anni di Pubblico Incanto: il teatro di Tino Caspanello

Domenico Colosi

Venticinque anni di Pubblico Incanto: il teatro di Tino Caspanello

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sabato 02 Giugno 2018 - 10:06

Intervista al drammaturgo di Pagliara in occasione dei venticinque anni di vita della sua compagnia

“Viviamo nella provincia della provincia. Nel deserto”. Da Pagliara, paese collinare del versante jonico, l’attore, regista e drammaturgo Tino Caspanello celebra i venticinque anni della sua compagnia Pubblico Incanto: i successi e le difficoltà di una storia siciliana nella sua radice più profonda, con ramificazioni oramai sparse in tutta Europa, dalla Francia alla Polonia. Uno spazio poetico fuori dal tempo, alla ricerca dell’ineffabile.

Sapresti individuare il filo conduttore di questi venticinque anni di attività?

Abbiamo iniziato i primi veri lavori intorno al 1989. Il 28 maggio del 1993 ci siamo strutturati in associazione, definendo davanti ad un notaio tutti gli aspetti burocratici. In quel periodo portavamo in scena il Pianto della Madonna di Jacopone da Todi e stavamo preparando l’adattamento di Sik Sik – L’artefice magico di Eduardo De Filippo. Nel ’94 si è aggiunta ufficialmente in compagnia anche mia moglie Cinzia Muscolino, presenza fissa ancora oggi con l’attore Tino Calabrò. Il nostro orizzonte è la tradizione del territorio nel tentativo di innalzarla a linguaggio poetico e teatrale. In un primo momento ragionavamo sui testi dei grandi drammaturghi come Shakespeare e Pirandello, ma anche su opere non teatrali che “cucivo” per la scena: seguivo la suggestione del momento, il tema del viaggio, dell’esperienza salvifica. La svolta è forse arrivata con Mari, che ha trionfato al Premio Riccione e ci ha regalato la ribalta nazionale. Un biglietto da visita che resiste ormai sulle scene dal 2003, un lavoro pubblicato con successo in Francia e poi adottato da cinque diverse compagnie transalpine. Nulla tuttavia è facile o scontato, con il teatro si riparte ogni volta da zero.

Qual è il tuo orizzonte drammaturgico?

Credo nel testo, e dunque lavoro sulla parola. In Italia questo tipo di approccio ha avuto sempre alterne fortune; mi ricordo che in un incontro pubblico anche Franco Quadri corresse il tiro rispetto alle sue diffidenze iniziali, riconoscendo al testo un valore decisivo. Il mio campo d’azione è chiaramente quello classico: lo spazio, il tempo, le relazioni tra gli uomini o l’impossibilità di tradurre il sentimento in linguaggio sono i punti di fuga che ispirano la mia scrittura. In questi giorni, inoltre, è stato pubblicato da Editoria & Spettacolo Sottotraccia, un volume con le mie nuove drammaturgie; oltre al testo che dà il titolo alla raccolta, sono compresi anche Orli – già rappresentato a Palermo da Giuseppe Massa – Niño, Blues e Don’t Cry Joe. Un ulteriore motivo di orgoglio è rappresentato dalla splendida prefazione scritta per l’occasione da Haun Saussy, docente di letterature comparate dell’Università di Chicago che da anni segue con attenzione il nostro lavoro.

L’altra anima della compagnia è Cinzia Muscolino, compagna di vita e palcoscenico.

È la prima attrice del testo, ma non è mai entrata nel merito della scrittura. Chiaramente apro sempre con lei un discorso fatto di critica e analisi, ma tendenzialmente mi isolo completamente nelle fasi preparatorie. Cinzia viene dal mondo dell’arte, è scultrice, scenografa, costumista, attrice: le sue dinamiche di intervento nello spettacolo sono tra le più varie, non abbiamo mai avuto uno schema fisso o una visione settoriale. Certo, a volte il rapporto può diventare ingombrante, come credo sia normale per due persone che vivono insieme da diciannove anni.

Quale consideri il momento più significativo per la compagnia?

Sicuramente l’opportunità di recitare Mari ad Hong Kong. E poi i viaggi in Polonia, o i nostri spettacoli in scena a Lione, Avignone e Atene tra il 2012 e il 2016. Siamo rappresentati in tutta Europa, da Est a Ovest. Ho visto un recital di Mari ad opera di Bruno La Brasca, o la sua rappresentazione al Théâtre de l’Atelier di Parigi con Gilles Cohen: il nostro lavoro approdava così nel tempio di Antonin Artaud. Forse la consacrazione parigina è il punto più alto dei nostri venticinque anni di carriera, con più di trenta repliche tra il maggio e il giugno del 2011 alla presenza dei maggiori operatori teatrali francesi.

Per tornare poi a Messina.

Una città che a volte trovo apertissima e talvolta chiusa nella peggiore diffidenza. Dal 2011, quando presentammo Interno alla Sala Laudamo, siamo fuori dal sistema del principale teatro cittadino. Porte sprangate: un atteggiamento nei nostri confronti che faccio fatica a comprendere. Quadri di una rivoluzione, ad esempio, ha debuttato a Napoli, ma non ha trovato cittadinanza a Messina. In questi anni si è creato un bel fermento con l’apertura di spazi come il Clan Off, il Teatro dei 3 Mestieri o gli oramai storici Magazzini del Sale: un dato positivo che tuttavia stenta a decollare definitivamente. Un debutto a Messina rischia spesso di diventare lettera morta, poiché sono assenti gli operatori di settore che possono rilanciare in ambito nazionale idee e progetti. Messina è purtroppo provinciale come il resto dell’Italia, i suoi intellettuali non prendono mai posizione nella politica. Non si discute più, non c’è incontro.

Nuovi obiettivi?

Dal 4 al 7 luglio curerò per il terzo anno la direzione artistica di Write, il mio progetto di residenza teatrale organizzato a Mandanici. A breve svilupperemo inoltre una nuova collaborazione in Grecia. Personalmente il mio unico vero obiettivo in questo momento è quello di ottenere uno spazio sulla riviera jonica in cui poter ospitare una piccola stagione teatrale, prove e laboratori: dal 1993 al 2006 abbiamo gestito una piccola sala a Pagliara, la Lanterna Rossa, poi chiusa per gli ingenti costi di ristrutturazione che si erano via via prospettati. Vogliamo interagire con il Comune e trovare una soluzione: il sistema della cultura è entrato in crisi perché fa il verso alle logiche di mercato, spero che le istituzioni siano pronte a supportare progetti orientati verso un reale ricambio generazionale del territorio. Contro il vuoto di questi anni, per dare un senso al nostro lavoro.

Domenico Colosi

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