Ecco cosa sta mettendo a rischio uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta
Nelle ultime settimane oltre 5 milioni di ettari di foreste, una superficie pari a poco meno della metà dell’intero patrimonio forestale italiano, sono andate in fiamme in Siberia nel solo mese di luglio. Un dato senza precedenti nella storia recente della Russia. Per effetto di questi incendi una nuvola di fumo di oltre 5 milioni di chilometri quadrati (una superficie più estesa dell’intero territorio dell’UE) ha avvolto buona parte della Siberia, comprese le principali città siberiane, come Novosibirsk, attraversando l’oceano Pacifico e raggiungendo le coste occidentali di Canada e Stati Uniti. All’inizio di questa settimana, un incendio nelle Isole Canarie ha costretto alla fuga oltre 8.000 persone.
Qualche giorno prima i social media e le televisioni hanno mostrato le immagini di incendi in Alaska, prolungando una stagione di incendi insolitamente lunga per lo stato boreale. La scorsa settimana, la Danimarca ha inviato vigili del fuoco e mezzi anti-incendio in Groenlandia (parte del suo territorio) per combattere un incendio che minacciava le aree abitate (li sono fatte in legno). Ma tra tutti gli incendi avvenuti questa estate nelle varie regioni del globo, la preoccupazione maggiore è rivolta verso quelli avvenuti nella foresta pluviale amazzonica. Da almeno due settimane le fiamme stanno divorando le foreste degli stati brasiliani di Amazonas, Rondonia, Mato Grosso, Parà e del Paraguay.
Un fumo molto denso sta avvolgendo questi stati, spingendosi fino al sud del Brasile e alla città di San Paolo, la più grande città del Brasile, distante migliaia di chilometri dal cuore degli incendi divampati nello stato di Rondonia e nel Paraguay. Circa 75 mila eventi incendiari sono stati registrati nel corso del 2019 nella foresta pluviale amazzonica, un numero record, quasi il doppio rispetto al numero di incendi nello stesso periodo del 2018. L’istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE) ha rilevato che nel mese di luglio sono stati bruciati 225 mila ettari di foresta pluviale amazzonica, anche questo un dato senza precedenti, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018. In molti oggi si domandano come fa a bruciare una delle foreste più grandi e umide della Terra, dove gli incendi dovrebbero essere quasi sconosciuti.
Secondo alcuni ambientalisti la responsabilità è addebitata agli agricoltori e alle grandi imprese zootecniche e agro-industriali, che usano il metodo “taglia e brucia” per liberare la terra, non solo dalla vegetazione, ma anche dalle popolazioni locali e indigene. Gli alberi vengono tagliati nei mesi di luglio e agosto, lasciati in campo per perdere umidità, successivamente bruciati, con l’idea che le ceneri possano fertilizzare il terreno. Ma oltre al “dolo” e all’azione criminale dell’uomo ci sarebbero anche dei fattori naturali, comunque legati a doppio filo con l’attività di deforestazione. Riguardano proprio le siccità, divenute sempre più intense e frequenti nella parte più meridionale della regione amazzonica.
L’ultima grave siccità registrata sul bacino amazzonico risale proprio all’inverno del 2010, quando in molte regioni dello stato dell’Amazonas si registrò un notevole indebolimento dell’attività convettiva necessaria per lo sviluppo dei forti temporali di calore pomeridiani che rappresentano la principale fonte di sostentamento di uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta. Una siccità ancora più disastrosa si era ripetuta nel 2005, un’annata davvero terribile per mezza foresta amazzonica che rimase a secco per molti mesi. Quell’anno persino i numerosi stagni e acquitrini che l’ha circondano si erano quasi del tutto prosciugati, causando ingentissimi danni alla fauna e alla flora locale. La siccità del 2005 fu così tragica che l’immensa selva sudamericana ha rilasciato più anidride carbonica di quanta ne abbia assorbita. Quello che più preoccupa e la ripetizione di questi eventi calamitosi nel giro di pochi anni.
Ultimamente un nuovo lungo periodo siccitoso è partito negli ultimi mesi, quando lungo il bacino amazzonico, soprattutto sul settore più meridionale, inizia a registrarsi un calo della piovosità per l’elevazione dell‘ITCZ (“fronte di convergenza intertropicale”) verso nord, che sale in direzione della Guyana e del Venezuela. In genere il pattern associato a “El Niño” può causare prolungante fasi siccitose sulla regione amazzonica. Negli ultimi 100 anni le siccità hanno interessato, in modo alquanto irregolare, buona parte del bacino amazzonico. In media i periodi siccitosi si sono alternati in 1 o 2 eventi in 10-12 anni. Ultimamente però il periodo medio di ritorno è sceso ulteriormente sotto i 6-5 anni, come dimostra la grave siccità del 2005, o quella del 2010. Solitamente questi periodi di siccità si sono verificati durante gli anni caratterizzati da un forte “El Niño”, ossia quando le acque insolitamente calde presenti lungo la costa del Pacifico meridionale alterano l’andamento del regime pluviometrico per le anomalie riscontrate lungo l’area di convergenza equatoriale che determinano un parziale indebolimento degli Alisei, che rappresentano una delle principali fonti di umidità della foresta amazzonica.
Nel 2010 però era presente la “Ninà”, mentre la terribile siccità del 2005 era stata associata ad un “El Ninò” sostanzialmente su posizione neutra. Successivi studi hanno evidenziato che la grave siccità del 2005, considerata come la peggiore del secolo, non era da attribuire alle anomalie pacifiche, ma bensì alle elevatissime temperature delle acque superficiali dell’Atlantico equatoriale che in quel periodo avevo toccato valori quasi da record. Le elevate temperature dell’Atlantico tropicale hanno contribuito a mantenere le temperature su valori largamente sopra le medie stagionali su 2/3 dell’Amazzonia, determinando al contempo un notevole rinsecchimento dell’atmosfera su tutta la vasta area del bacino, soprattutto sul versante più occidentale e sud-occidentale, tra la parte ovest dello stato dell’Amazonas e l’Acre. Ciò si traduce in temperature molto elevate, ma accompagnate da un clima alquanto secco, che inibisce l’attività convettiva in area equatoriale, con il conseguente indebolimento degli Alisei provenienti dall’Atlantico tropicale e il quasi dimezzamento delle precipitazioni convettive legate al passaggio del “fronte di convergenza intertropicale”.
Un leggero aumento di piovosità e annessi moti convettivi si registra solo lungo le aree costiere affacciate sull’Atlantico. Quest’anno il rischio di una grave siccità lungo il bacino amazzonico rischia di farsi sempre più concreto. Ormai non ci resta che aspettare l’arrivo dell’autunno boreale. Fino allo scorso anno, la graduale intensificazione dell’attività convettiva, legato all’abbassamento della linea dell’ITCZ verso la parte meridionale della regione amazzonica, non aveva presentato alcun tipo di anomalia. Difatti, la convergenza fra gli Alisei e il notevole apporto di umidità dall’Atlantico tropicale, nell’autunno del 2013, alimentarono una intensa attività convettiva, soprattutto durante le ore pomeridiane e serali, favorendo la formazione di grossi sistemi temporaleschi a mesoscala che hanno dato luogo a forti rovesci di pioggia, anche molto intensi, con colpi di vento e intensa attività elettrica.