Dall'assassinio di un ragazzino a quello di un ubriacone, passando per gli interessi della mafia nell'Aias di Milazzo. Tutti i retroscena svelati dai pentiti.
Sono 22 in totale gli indagati dell’operazione Gotha 6, l’ultima trance della maxi operazione della Dda di Messina contro il clan di Barcellona. Una offensiva anche questa volta siglata dai Pm della Dda Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, trai i più bravi sostituti a disposizione del procuratore capo Guido Lo Forte, e dai carabinieri del Ros e della Compagnia di Barcellona, in questi anni impegnati in un costante lavoro di monitoraggio degli equilibri mafiosi barcellonesi.
Tra gli indagati, insieme ai 13 arrestati figurano anche i pentiti che hanno contribuito all’operazione, cioè i fratelli Carmelo e Francesco D’Amico, Nunziato Siracusa e Santo Gullo, infine il più recente pentito Franco Munafò, passato alla collaborazione con la giustizia nel 2015, dopo l’arresto nel blitz Gotha6. Indagati anche Renzo e Sebastiano Messina, il nipote Tindaro Alesci e Domenico Abbate.
A chiamare in causa questi ultimi, in relazione al tentato omicidio di Pietro Arnò, ai vertici dell’Aias, sono proprio i fratelli D’Amico. Ma il loro racconto convince poco i giudici messinesi, che non hanno concesso alcun provvedimento legato alla vicenda.
Il racconto dei D’Amico e di Siracusa è stato passato al vaglio degli investigatori i quali, attraverso una meticolosa e paziente operazione di “incrocio” con il racconto degli altri pentiti e coi dati offerti dai riscontri, ha composto un quadro preciso dei retroscena di una lunga serie di delitti che hanno insanguinato il Longano nello scorso ventennio. Alcuni dei quali erano rimasti impuniti. Eccone due in particolare.
OMICIO SBOTO: Aveva appena 21 anni Antonino Sboto quando finì i suoi giorni miseramente. Il suo peccato più grave? Aver commesso piccoli furtarelli, ma uno nel negozio sbagliato: quello di una parente di un mafioso. Mafioso appartenente al clan del Logano, che non amava i furti non autorizzati dalla famiglia, men che mai ai danni di un affiliato. Mafioso che non esita ad ordinare l’omicidio brutale di un ragazzino, commesso da mafiosi che si comportano come macellai, non esitando a straziare il cadavere di un ragazzino. Non sono inediti i dettagli raccontati da Carmelo D’Amico relativi all’omicidio del 3 maggio 1999. Ma rileggerli nelle pagine dell’ordinanza Gotha 6, nei verbali atoni dell’ex boss, desta sempre sgomento. Il motorino del ragazzino venne ritrovato ad Acquacalda, e nella sua abitazione quella stessa sera i carabinieri trovarono i proventi del furto. Il fratello qualche giorno dopo si recò in Commissariato presentanto una dettagliata denuncia. Denuncia poi ritrattata. Sono rimasti a lungo impuniti, quindi, gli assassini.
Oggi D’Amico inchioda ognugno alle proprie responsabilità, autoaccusandosi di essere stato tra i “macellai” che gli ha sparato alla testa e poi gli ha tagliato le mani, per poi effettuare la telefonata anonima che consentì agli uomini dell’Arma di ritrovare il cadavere straziato, nel torrente Landro. E’ stato Salvatore Micale, riferisce D’Amico, a ordinare la morte del ragazzino, per vendetta. Sam Di Salvo, interpellato in proposito, diede il proprio assenso tra un caffè e una birra, in un bar di via Kennedy. Micale gli tese una trappola: invitò il ragazzo a commettere un furto insieme e Nino Sboto arrivò a bordo del proprio motorino, salì in macchina con Micale e si avviò verso il torrente Idria. Qui, li aspettavano D’Amico, il fratello Francesco, Aurelio Micale e Antonino Calderone, su una jeep, armati di due pistole calibro 7,65. Sul torrente Micale abbandonò il ragazzo al kommando, che lo immobilizzò legandogli le mani dietro la schiena e caricandolo nel cofano della jeep, poi si allontanò. In cima al torrente Buzzurro, Sboto venne scaricato, schiaffato faccia contro un muretto e giustiziato con un colpo alla nuca. Poi Carmelo D’Amico con un machete provò a tagliargli le mani, ma non ci riuscì. Finì il lavoro Calderone, di professione macellaio e quindi più esperto. Corpo e mani mozzate vennero poi lanciati in un roveto. Di Salvo, saputo delle modalità dell’esecuzione, espresse tutta la sua approvazione.
“Decidemmo di tagliare le mani di quel ragazzo per dare un esempio a tutti. A Barcellona non si doveva robbare”, racconta D’Amico al Pm Angelo Cavallo. Il racconto di D’Amico è stato confermato dal fratello Francesco, che ha svelato anche una discussione con un altro del kommando, qualche giorno dopo. I due commentarono che le modalità con cui erano state mozzate le mani, con la precisione di un esperto, in corrispondenza delle giunture, potevano portare gli investigatori a Calderone, quasi fossero una “firma”.
OMICIDIO FICARRA: Era il primo luglio del ’98 ed a Santa Lucia del Mela moriva Fortunato Ficarra. Uno sventurato, un ubriacone cinquantenne che dava fastidio alle donne, un avventore molesto che allontanava la clientela dal bar di Pietro Nicola Mazzaggati e che aveva fama, nel paese, di aver violentato una donna. A quasi 20 anni dall’assassinio D’Amico chiama in causa proprio Mazzaggatti, non nuovo ai guai con la giustizia, anche se spesso ha risolto i processi con verdetti a suo favore. Ficarra fu ucciso con 5 colpi al capo ed uno al costato, esplosi da D’Amico e Calderone, arrivati a bordo di una Yamaha Supertenerè nera. La moto dei killer era stata notata dai carabinieri sfrecciare a Santa Lucia poco tempo prima del delitto, seguita dal furgoncino bianco di Mazzaggati.
Come compenso dell’omicidio Mazzagatti consegnò ai due un anello e un bracciale di diamanti. Nulla a che vedere coi “miseri” 5 milioni che era costata l’esecuzione di Sboto. I soldi dovevano essere divisi tra gli esecutori, poi furono “devolti” interamente ai familiari dei carcerati.
IL TENTATO OMICIDIO DI PIETRO ARNO’. Presidente della Nuova Igea, Direttore amministrativo dell’Aias, l’ente per l’assistenza dei disabili, Arnò venne colpito di striscio alla testa, il 14 novembre del 2003, al ritorno nella villetta di Spinesante. Da subito Arnò sospettò di Sebastiano Messina, vice presidente dell’Aias sotto la presidenza di Luigi La Rosa. Arnò voleva infatti estromettere Messina dalla gestione, liquidandolo se pur con una cospiqua buona uscita. Sospetti mai concretizzati in accuse formali, ma Messina fu costretto comunque, qualche anno dopo, a dimettersi. Nel 2010, morto Arnò e con l’Aias nella bufera, provò a rientrare nella gestione. Una parte dei suoi tentativi venne intercettata dagli investigatori anche perché La Rosa aveva nel frattempo intrapreso una collaborazione con gli inquirenti, e accettò di far registrare i colloqui con l’ex vice presidente. In uno di queste conversazioni La Rosa rinfaccia a Messina le pressioni subite a suo tempo da D’Amico proprio per le vicende legale all’Aias. Messina nega, parla di una iniziativa personale di D’Amico, che una volta pentito conferma il fiume di denaro pagato dall’Aias con le tangenti e una diretta “longa manus” del clan nella gestione dell’ente.
D’Amico aveva già svelato quasi un anno fa sia le tangenti pagate dall’Aias che il mandante del tentato omicidio, attribuito a Giovanni Rao perché Arnò ad un certo punto non voleva più pagare tangenti così alte. Oggi svela l’interessamento dei Messina e la volontà dell’x vice presidente di eliminare il concorrente nella gestione dell’Aias. D’Amico afferma però di saperlo perché a raccontarglielo è stato lo stesso Giovanni Rao. Dei Messina non fanno menzione però altri pentiti, e anche Siracusa e Francesco D’Amico non forniscono conferme di prima mano del racconto di Carmelo, a sua volta confuso sia sulle scansioni temporali che su altri improntanti particolari.
(Alessandra Serio)