Perchè il 25 aprile e l'1 maggio offendiamo i martiri d'Italia e di Chicago

Perchè il 25 aprile e l’1 maggio offendiamo i martiri d’Italia e di Chicago

Rosaria Brancato

Perchè il 25 aprile e l’1 maggio offendiamo i martiri d’Italia e di Chicago

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domenica 29 Aprile 2018 - 06:17

Gli operai di Chicago morirono battendosi per la riduzione dell'orario di lavoro. Paradossalmente oggi, proprio l'1 maggio quei diritti dei lavoratori conquistati negli anni, vengono azzerati e calpestati.

La modernità ed il progresso non devono procedere a scapito dei diritti. Penso che nessuno possa essere orgoglioso di divertirsi e far festa se questa si paga sulle lacrime e le ingiustizie che altri patiscono. Piccole o grandi che siano.

Abbiamo un lungo ponte festivo, che si concluderà martedì 1 maggio. Alcuni, i più fortunati, la festa l’hanno cominciata il 25 aprile. Nel 2018 purtroppo la stragrande maggioranza di chi festeggia non ha la più pallida idea di cosa significhino per noi la Festa della Liberazione e la Giornata dei lavoratori. Nell’immaginario collettivo l’1 maggio è il concertone a Roma, la gita fuori porta, la grigliata con gli amici, e il 25 aprile una serie di cerimonie ufficiali in occasione di un giorno rosso nel calendario.

Ma a “pagare” le nostre scampagnate, i nostri giri di shopping, non devono essere altre persone, meno tutelate.

Sto con la Cgil che ha avviato la campagna “La Festa non si vende” e sto con la Coop che lascia chiusi 430 punti vendita dal Friuli alla Sicilia passando per Puglia e Lazio al grido di “Chiusi per scelta”.

Due prese di posizione sia per il 25 aprile che per l’1 maggio, date che sono due PILASTRI sui quali si fonda la nostra Repubblica democratica.

Siamo Repubblica, e democratica, grazie a chi è morto per la nostra libertà. Siamo Repubblica ed anche fondata sul lavoro, diritto tutelato dalla Costituzione.

Entrambe le feste quindi le abbiamo nel DNA, identificano chi siamo come italiani. Invece paradossalmente col passare degli anni mentre si perdeva il senso della festa, contemporaneamente i diritti di chi in questi due giorni lavora per il nostro “trastullo”, sono stati cancellati. Soprattutto al sud ed in Sicilia dove quei diritti sono affievoliti anche nei restanti 365 giorni dell’anno, figuriamoci nei festivi.

I manifesti Coop scrivono: “il 25 aprile e l’1 maggio chiusi per scelta” e spiegano: “una decisione coerente con i valori, la cultura e la storia della cooperazione, in particolare quella di consumo” . Scrive la Cgil: “Ogni lavoratore ha il diritto di celebrare con i propri affetti l’anniversario della Liberazione d’Italia e la Festa Nazionale dei Lavoratori, in coerenza con i valori in cui credono e crediamo. Alcune imprese, soprattutto nella Grande Distribuzione, hanno previsto, in modo del tutto illegittimo, in molte lettere di assunzione l’obbligo del lavoro festivo”.

Ci sono lavoratori che durante le 4 stagioni sono pagati in nero, altri che prendono buste paga con una cifra ma ne incassano la metà, donne costrette a firmare contemporaneamente dimissioni in bianco (in caso di gravidanza), giovani costretti a firmare contratti-capestro, intere categorie costrette a lavorare con turni massacranti e senza straordinari o contributi adeguati. Questo scempio dei diritti dei lavoratori avviene anche, per paradosso, nel giorno della Festa del lavoro ed il 25 aprile.

Fingere di non saperlo è da ipocriti, non fare nulla per evitarlo è da complici.

Sono consapevole del fatto che, soprattutto in zone turistiche, i siti culturali, i ristoratori debbano restare aperti. Per molti, soprattutto in terre di crisi, solo le feste rappresentano occasione di vedere clienti entrare. Ma non capisco perché questo debba avvenire a scapito della busta paga di un commesso. Non capisco perché essere aperti durante le feste non corrisponda ad un adeguato pagamento per chi lavora. Stiamo andando verso una visione selvaggia dei rapporti umani.

E’ giusta l’apertura l’1 maggio di bar, ristoranti e musei o negozi di souvenir in luoghi turistici, nel PIENO RISPETTO delle norme a tutela dei lavoratori, ma proprio non capisco l’apertura dell’outlet e dei supermercati. Non ne capisco la necessità e l’urgenza.

Non capisco perché io devo fare la spesa cinguettando al telefono con amici che rallegreranno la mia tavola di lì a poco mentre di fronte a me ho una cassiera che per 500 euro al mese (magari anche gli ultimi due stipendi in arretrato) è lì dalle 7 del mattino per servire me e tornerà a casa distrutta dal lavoro. E di quel turno in più non avrà nulla se non l’umiliazione di una vita dedita al sacrificio senza alcuna ricompensa.

Mi vergogno di vivere in un Paese nel quale la mia allegria è a scapito di altri.

Lo scorso anno, proprio in occasione di queste festività Di Maio disse: “Ci stanno impoverendo. Non è solo una questione economica, ma di serenità familiare e felicità personale”, e ipotizzò una soluzione normativa.

Infatti non è solo una questione economica ma di quello che negli Stati Uniti è costituzionalmente tutelato come “diritto alla felicità”. A volte l’abisso verso la tristezza è impercettibile, è un cammino fatto di quotidiane rinunce e rassegnazione. Poi una mattina ti svegli e scopri sgomenta che ogni goccia di tristezza è diventato un oceano d’infelicità.

Se il negozio di cinesi, che per tutto l’anno ignora l’esistenza di qualsiasi tipo di diritto, resta aperto il lunedì di Pasqua senza regole, finirà che il suo vicino di saracinesca inizierà a riflettere per fare altrettanto. E la mancanza di rispetto per il lavoro diventa contagiosa. Anche perché i clienti entrano. Eccome. Nessuno si chiede perché quella cosa costa 1 euro o 2. Nessuno vuol chiedersi chi paga per quel prezzo stracciato.

Io non sono più felice se compro la maglietta a 4 euro l’1 maggio. E sono certa che non è felice la commessa che ho di fronte. Perché è come i giovani nei call center, come tutte le categorie di precari mal pagati e sfruttati di un Paese che schiaccia la dignità personale in nome di un’imitazione di consumismo sfrenato.

Ci siamo persi i diritti per strada. La parola libertà che i nostri nonni ci hanno donato significa anche imparare a lottare per quel che riteniamo giusto. Anche se nessuno intorno a noi lo fa. Onoriamo il lavoro nel solo modo che esiste: attribuendogli il giusto valore e attribuendo il giusto valore alla felicità personale ed alla serenità familiare.

Onorare il lavoro significa ricordare perché lo celebriamo l’1 maggio e cosa accadde (1886 Chicago e poi nel mondo). QUELLA BATTAGLIA CHE FINI’ NEL SANGUE ERA PER LA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO. Ci furono operai che morirono per quello in cui credevano: lottare contro un orario di lavoro disumano. Due secoli dopo, paradossalmente, festeggiamo quell’anniversario e quella battaglia LAVORANDO senza rispetto per le norme e i diritti. E se ci pensate bene è un modo per offendere quei morti.

Rosaria Brancato

2 commenti

  1. CastorinaCarmelo 29 Aprile 2018 16:12

    Vorrei ringraziarla per il coraggio di donna e di giornalista ella non si annovera tra le yes-woman che ci sono in giro……..

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  2. benissimo… è la prova che non si è liberato nulla !! si è tradito chi aveva socializzato l’Italia e tutelato il popolo e i lavoratori…. e già si stava bene quando si stava peggio??

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