Con calibrata costruzione della trama, e con uno stile efficace, Ottessa Moshfegh ci porta, pagina dopo pagina, a qualcosa di cui nessuno si sarebbe creduto capace aprendo il libro
Dormire per – quasi – un anno intero, in modo da far ringiovanire il proprio corpo, dar modo a cellule nuove di sostituire quelle vecchie, e poi ricominciare a vivere con rinnovata energia; questo il surreale proposito della protagonista – di cui non sapremo mai il nome – de Il mio anno di riposo e oblio, romanzo della statunitense Ottessa Moshfegh.
Tre giorni di sonno, un’ora di veglia
All’inizio della storia – che, flashback esclusi, copre un arco temporale di circa un anno – la protagonista, con l’aiuto di farmaci da banco, dorme tra le quindici e le venti ore al giorno. In seguito, grazie alle prescrizioni della dottoressa Tuttle, probabilmente la peggiore psichiatra della storia, e allo sperimentale e terribile Infermiterol, raggiungerà la routine a cui aspirava: dormire per tre giorni di fila, svegliarsi per mangiare, lavarsi e fare venti minuti di esercizio fisico, per poi ripiombare nell’oblio per altri tre giorni.
Fuggire dalla realtà
Nel mezzo, i momenti di veglia della protagonista, e le sue riflessioni sul passato – cui non vorrebbe pensare ma non può farne a meno – ci fanno capire presto che il vero motivo del piano descritto in apertura è il desiderio di sfuggire a un’esistenza insostenibile.
Giovane, carina, ricca, con un’istruzione di alto livello, la protagonista avrebbe tutte le caratteristiche per essere definite una privilegiata. Nonostante ciò, si trascina pigramente in una vita in cui niente le dà più soddisfazione di una lunga dormita.
Poco prima di decidere di concedersi un anno di letargo aveva perso un lavoro che la annoiava e non le manca per niente; coi genitori, morti mentre frequentava il college, non ha mai avuto un vero dialogo; l’unico uomo della sua vita l’ha lasciata e ripresa per anni, umiliandola costantemente.
Una sconfinata freddezza
Difficile che il lettore non provi empatia per la sua storia. Ma è altrettanto difficile non notare come la donna non si sia mai impegnata per fronteggiare le sue sfortune, o addirittura le abbia favorite.
Del resto, nella storia al presente, l’unico rapporto umano della protagonista, quello con l’amica Reva, racconta molto al lettore. Reva, con tutti i suoi difetti – e numerosi lati sgradevoli – rappresenta un’umanità imperfetta e reale, che sbaglia previsioni, si contraddice, è costretta a mandare giù tanti bocconi amari, arriva anche a disperarsi, ma il giorno dopo si rialza dal letto e continua a andare avanti.
La protagonista, invece, pur essendo palesemente più istruita, più perspicace, più sensibile anche – per quanto cerchi di nasconderlo – non riesce a scendere a patti con ciò che non capisce e che la spaventa, e l’unica reazione che riesce a mettere in pratica è dormire.
Con calibrata costruzione della trama, e con uno stile efficace, Ottessa Moshfegh ci porta, pagina dopo pagina, a qualcosa di cui nessuno si sarebbe creduto capace aprendo il libro, e cioè pensare, anche solo per qualche secondo, che forse la protagonista non ha tutti i torti.
Suggeritore di riflessioni
Senza dirci cosa sia giusto o sbagliato, senza mai cadere nella retorica, riuscendo invece ora ad emozionarci ora a commuoverci, l’autrice ci porta a riflettere, come fossimo Amleto, sul rapporto tra azione e inazione, e a chiederci, quasi ad ogni pagina: e io che avrei fatto?
Non tocca a noi dire, in questa sede, se al termine del proprio progetto la protagonista sarà cambiata in meglio o in peggio; siamo però sicuri che, se avrà risposto senza mentire a se stesso alle domande di cui sopra, anche il lettore attraverserà un arco di trasformazione.
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