Emergenza anziani tra carovita, emigrazione e mancanza di strutture

Emergenza anziani tra carovita, emigrazione e mancanza di strutture

Iria Cogliani

Emergenza anziani tra carovita, emigrazione e mancanza di strutture

lunedì 09 Settembre 2024 - 07:00

Nell'area metropolitana di Messina ci sono 208 anziani over 65 ogni 100 under 15. Ma non siamo "attrezzati" a rispondere alle loro esigenze

Si fa presto a dire “anziani”. Non tutti gli anziani hanno le stesse esigenze né le stesse risorse. E però la questione povertà e la questione solitudine sono tra quelle che incidono più significativamente, en combine o meno. Ogni persona una storia, ogni storia una moltitudine di sfaccettature.

«In diretta conseguenza dell’invecchiamento generale della popolazione – diceva qualche tempo fa Flavia Finocchio, responsabile della comunità Francesco Maria di Francia di Roccalumera – spesso l’anziano non ha nessuno che possa occuparsene”.

Non è un Paese per vecchi

Nel giugno di quest’anno l’ennesimo allarme: il territorio messinese non è a misura di anziani. «Nella provincia di Messina ci sono 208 anziani over 65 ogni 100 under 15 e sono cittadini e cittadine che esprimono necessità di assistenza sociale, sanitaria, economica», dichiaravano il segretario generale della Cgil Messina Pietro Patti e la segretaria generale dello Spi territoriale Pina Teresa Lontri. La combinazione di carenze nei servizi sanitari, supporto sociale, infrastrutture urbane, mobilità e supporto economico contribuisce a una qualità della vita insoddisfacente».

Una storia famigliare, una domanda “politica”

Qualche esempio? Antonino Cappa, componente dello Spi provinciale e cittadino di Capo d’Orlando, ha una storia famigliare che esemplifica il problema. Sua suocera è venuta a mancare all’età di 96 anni, ma gli ultimi due anni e mezzo della sua vita li ha trascorsi con metà corpo paralizzato a causa di un ictus. «Era una donna forte, efficiente, capace. Ed è rimasta lucida e presente fino all’ultimo. Però le sue esigenze quotidiane negli ultimi anni erano tantissime. Oltre alla badante, la cura di questa persona ha impegnato ogni giorno i suoi figli. Non c’è stato spazio e tempo per nient’altro che questa cura. L’affetto, meritatissimo, di cui era circondata, gli aiuti costanti dei familiari pensiamo siano serviti a darle conforto e sollievo, ma nonostante questo sappiamo che questo periodo è stato difficile per lei e anche per il resto della famiglia. Una donna che ha faticato tutta la vita, sulla quale è ricaduta gran parte della responsabilità della famiglia con il marito lontano per lavoro anche per mesi, che ha saputo trasmettere valori fondamentali … Cosa le sarebbe accaduto se i figli non avessero abitato vicino a lei, se lei si fosse ritrovata vedova e sola e colpita da un ictus? Ecco, questa è la domanda pienamente “politica” alla quale le istituzioni dovrebbero dare risposte concrete».

Condizione che spezza il cuore

«Lo vediamo ogni giorno. Ci sono tantissimi anziani rimasti soli. E così – racconta Cappa – li ritroviamo, spesso in carrozzina, accompagnati dal badante, a fare una passeggiata di qualche minuto fuori di casa. E comunque non tutti possono consentirsi questo tipo di assistenza. E ancora: stiamo digitalizzando tutto, i servizi, le prenotazioni, gli accessi … Giustissimo. Ma i nostri anziani vengono da un’altra cultura, nella quale email e chat non sono contemplate. A volte per loro è impossibile anche solo prenotare una visita medica tramite numero unico, perché non comprendono le nuove procedure. Quando non ci sono familiari attivi e presenti, l’esistenza degli anziani è una condizione di amara solitudine e di difficoltà quotidiane, una condizione che spezza il cuore».

Le cause sono tante, ovviamente. La realtà è sempre più complessa di come la vogliamo dipingere. Ma non c’è dubbio che politiche attive in grado di affrontare il dato di fatto di una popolazione sempre più in là con gli anni sono indispensabili. E invece…

Salute bene primario spesso negato

In primis – sottolinea Cappa – c’è proprio il problema sanità. Non si è ancora assopita l’eco delle proteste per il declassamento dell’ospedale di Sant’Agata di Militello – e «certamente le proteste non si fermeranno» – ma di fatto il presidio ha perso molti dei reparti fondamentali. «L’intero territorio, 80 mila persone in inverno che diventano più di 100 mila nella bella stagione, ne sta pagando le conseguenze». E più di tutti queste conseguenze le pagano proprio gli anziani. «Facciamo per capirci: con l’età gli acciacchi arrivano inesorabilmente. Qualcuno più grave, qualcuno meno grave. La salute, che è il bene primario per definizione, non può, non deve diventare un business, altrimenti poveri, soli e anziani sono tutti condannati». Infine, ben vengano le previsioni del PNRR Salute (qui esemplificate dal monitoraggio del Comitato Consultivo dell’Asp Messina con Cesv e Pwi) ma non bastano, perché «mentre si cerca la cura, il paziente muore. Le soluzioni, le risposte vanno date ora».

La mela non sbucciata, la telefonata non fatta

Gli fa eco una “collega” dello Spi, Angela Passari. «Raccogliamo tantissime testimonianze. C’è la donna anziana con diverse fratture, ricoverata, alla quale in ospedale portano da mangiare una fetta di carne arrosto, che non avrebbe potuto né tagliare né masticare, e una mela. Lei chiede che le sbuccino la mela e le viene risposto che “al massimo” gliela avrebbero lavata. C’è una signora che ha trovato la propria parente ricoverata per una caduta ma affetta da Alzheimer in lacrime perché nessuno l’aveva aiutata a comporre il numero di telefono del figlio. C’è l’anziano con due costole fratturate che aspetta al pronto soccorso dal mattino sino alle 19 di sera e poi viene precipitosamente mandato a fare le radiografie perché si temeva che una costola avesse sfondato un polmone, cosa che per fortuna non era successa. C’è la signora che doveva prendere mezza pillola ogni giorno e si vede tagliare la pillola con le unghie da parte di un infermiere…».

La conclusione è analitica: «Sono certa che tantissimi cittadini abbiano storie da raccontare come queste. Credo che la qualità dei nostri medici sia alta, io stessa ho subito diversi interventi negli ospedali pubblici che sono andati benissimo e hanno avuto un ottimo decorso. Allo stesso tempo credo che il personale infermieristico e ausiliario sia talmente sotto organico, talmente sopraffatto dal lavoro che non ci sia quasi mai la possibilità di un comportamento “umano”, comprensivo, inclusivo. È una situazione che ha cause concrete, ma per chi è malato, per chi non ha familiari accanto l’esperienza nelle strutture sanitarie può essere devastante».

Le case di cura e le verifiche da fare

Passari fa parte anche dell’associazione Auser “I sempreverdi”, che ha una corale di canto, una compagnia teatrale, volontari che vanno in giro a turno a fare visite. «Andiamo nelle varie case di cura private, che operano sotto il controllo del Comune. Gli utenti ci aspettano con una aspettativa enorme. Li troviamo praticamente “posteggiati” davanti alla televisione o a letto. Raramente ci sono attività che li coinvolgano e li facciano uscire da uno stato di depressione e rassegnazione. Cosa che per me è indispensabile. Dobbiamo capire che i nostri anziani devono non sopravvivere, ma vivere. E questo significa anzitutto socializzazione, opportunità di condivisione, opportunità di espressione, la possibilità di parlare ed essere ascoltati, la possibilità di essere coinvolti in iniziative e attività alla loro portata e di loro interesse».

«Il mio obiettivo – conclude – è fare una verifica come Spi, caso per caso, struttura per struttura, al di là delle verifiche istituzionali».

Quelli che vanno via e quelli che restano

Passari aggiunge che ci sono tantissimi anziani, soprattutto coppie di coniugi, che a oltre sessant’anni «si trasferiscono dai figli, nel Nord Italia o in altre città europee. Per dare una mano o per non ritrovarsi in solitudine. E quello che succede è che rinunciano alla loro storia, alle loro abitudini, alle loro amicizie. Si ritrovano estranei in luoghi e comunità che non conoscono e non li conoscono. Alla fine, quasi tutti rinunciano a qualsiasi vita sociale, stanno esclusivamente dentro la famiglia. Fanno i nonni, fanno i genitori, e basta. Non hanno più una propria vita».

E Cappa racconta che in alcune zone che conosce bene, nel Messinese, c’era l’abitudine di far ricoverare gli anziani in certi periodi dell’anno – quelli della raccolta delle olive, per esempio – perché tutti i familiari erano impegnati e non potevano occuparsi dei “nonni”. E ciò «dà la misura di quanto la struttura sociale, i nuclei familiari, tra carovita, mancanza di servizi e anche sfiducia verso le istituzioni, non trovino nel nostro territorio soluzioni adeguate a situazioni complicate».

In evidenza immagine di Sabine van Erp da Pixabay.

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Un commento

  1. Gia’, e invece di costruire strutture comunali per l’accoglienza e il sostegno ad anziani, clochard e persone in difficolta’ varia…si pensa al “polo tecnologico”. Che triste e squallida barzelletta.

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