Intensa performance del chitarrista messinese con l'Orchestra Filarmonica Cilea nel “Concierto d'Aranjuez” di Joaquin Rodrigo. Qualche perplessità per l'esecuzione della sinfonia n. 41 K 551 di Mozart
L’Orchestra Filarmonica “Francesco Cilea”, diretta da Ottavio Marino, ha eseguito al Palacultura, per la stagione della Filarmonica Laudamo, due brani diversissimi fra di loro per epoca e concezione, la sinfonia n. 41 K551 di Wolfgang Amadeus Mozart ed il “Concierto d'Aranjuez” di Joaquín Rodrigo.
Quest’ultimo è sicuramente il brano più famoso del musicista spagnolo contemporaneo, morto a Madrid nel 1999. Il concerto si ispira ai giardini reali della cittadina spagnola di Aranjuez, e rappresenta uno dei pochi concerti scritti per chitarra solista e orchestra. Tale esiguità di brani esistenti per questo complesso strumentale si spiega col suono debole della chitarra che non può interagire con una intera orchestra senza esserne sovrastata. Il musicista spagnolo, cieco dall’età di tre anni, è riuscito nell’intento, facendo in modo che quando suona il solista l’orchestra, o tace o accompagna la chitarra con momenti di pianissimo, oppure dialoga solo con i fiati in accompagnamento. Il concerto si articola in tre movimenti: “Allegro con spirito”, “Adagio”, “Allegro gentile”. Il più conosciuto, e di più elevato valore artistico, è senz’altro il secondo, l'Adagio, con il solista in dialogo con il corno inglese, intonando un tema che è fra i più noti fra quelli composti nel ventesimo secolo. Nicola Oteri ha eseguito egregiamente il brano, sfruttando tutte le potenzialità dello strumento, ed è stato molto applaudito dal folto pubblico del Palacultura, al quale il chitarrista messinese ha concesso due bis. Particolarmente apprezzato il secondo bis, il celeberrimo “Asturias”, dalla “Suite espanola” di Albeniz, brano drammatico e concitato, conosciutissimo nella versione per chitarra ma in realtà composto per pianoforte dal musicista spagnolo.
La sinfonia K 551 denominata “Jupiter” da un ignoto editore, fu composta da Mozart a Vienna nel 1788, all’età di 32 anni insieme alla K543 ed alla K550. Mozart, probabilmente, non immaginava che non avrebbe mai assistito alla rappresentazione di questi sommi capolavori, e niente allora lasciava pensare che questo trittico avrebbe costituito l’ultima esperienza del grande musicista nel genere della sinfonia. Eppure l’impressione netta che si avverte all’ascolto delle tre sinfonie, ed in particolare della “Jupiter”, è proprio quella di un estremo, immenso lascito spirituale. La sinfonia n. 41 assomma infatti in sé tutte le sfaccettature della poetica musicale di Mozart, dalla maestosità solenne alla più tenera malinconia, ed inoltre Mozart raggiunge in essa il più elevato magistero compositivo orchestrale. Già il primo movimento – “Allegro vivace” – con quegli accordi maestosi iniziali che ci introducono immediatamente in medias res, in quel tema trascinante ed indimenticabile, ci colpisce immediatamente per la sua potenza, come una folgorante rivelazione; lo sviluppo presenta nello stesso tempo accenti drammatici ed ironici, ma parliamo di quella sovrana ironia propria del grande compositore austriaco. L’“Andante cantabile” (una delle cose per cui vale la pena vivere, secondo una celebre battuta di Woody Allen in un suo vecchio film) rappresenta un momento ieratico di riflessione, un incedere solenne e dolce ad un tempo, caratterizzato da quella trasparenza cristallina, ma sempre venata di sottesa inquietudine, in un equilibrio perfetto che invano si cercherebbe in altri compositori. Anche per il terzo movimento – “Minuetto. Allegretto. Trio” – si può affermare, che per la maestosità ed eleganza della scrittura non si era mai sentito nulla di simile nelle sinfonie dell’epoca, con tale brano Mozart si allontana definitivamente dal tradizionale minuetto settecentesco, ed anticipa i futuri “scherzi” delle sinfonie di Beethoven. Infine l’ultimo movimento – “Molto allegro” – costituisce probabilmente il miracolo di questa sinfonia: infatti Mozart riesce a coniugare il genere della fuga con quello della forma sonata, creando un capolavoro intriso di temi meravigliosi, inconfondibili, che nel finale si sovrappongono in contrappunto, creando una perfetta sintesi armonica, una “architettura in movimento” come scrisse Pestelli, e generando una composizione assolutamente rivoluzionaria e ardita per il settecento (probabilmente si dovrà attendere la “Grande fuga” per quartetto d’archi dell’ultimo Beethoven per trovare qualcosa di comparabile con questo pezzo).
Purtroppo una sinfonia così complessa non è alla portata di tutte le orchestre, ed infatti l’esecuzione dell’Orchestra Cilea ha destato non poche perplessità. Già nel primo movimento – ove sono mancati quel piglio maestoso, quei decisi contrasti di forte e piano, quel ritmo incalzante e quei crescendo che lo rendono così trascinante – si sono ascoltati gli archi spesso non all’unisono, con quel fastidioso sfasamento del suono, ed i fiati (soprattutto gli ottoni) non hanno interpretato la partitura con quella morbidezza e delicatezza necessarie per non rendere banale il brano (nessuna musica più di quella di Mozart corre il rischio di essere resa banale da un’esecuzione inappropriata). Le cose non sono migliorate nell’Andante, che è apparso fiacco e un po’ “piatto”, con lo stesso problema degli archi non all’unisono. L’esecuzione del Minuetto è apparsa decisamente migliore, ma il finale, molto difficile comunque per qualsiasi orchestra, ha risentito dei difetti esposti, che hanno reso difficile per l’ascoltatore l’individuazione di tutti i temi. In ogni caso è sempre gradevole riascoltare la “Jupiter” (non capita spesso dalle nostre parti) se non altro per ricordarci quale sublime musica ci abbia regalato Mozart, un capolavoro che ci piace definire con le parole – sono stati versati fiumi di inchiostro sulla “Jupiter” – fra i tanti biografi mozartiani, di Paumgartner: “Come un canto trionfale, splendido nella consapevolezza della propria forza, la K551 si innalza al di sopra dei dolori terreni in un supremo alone di luce”.
Giovanni Franciò