Intervista al regista Domenico Cucinotta e all’attore Pippo Venuto, in scena lunedì 13 luglio (ore 21) al Parco ecologico San Jachiddu, con lo spettacolo “In veste di rosa”.
Il secondo appuntamento con il Forte Teatro Festival è con lo spettacolo “In veste di rosa”, una rappresentazione che muove dal romanzo (“Il miracolo della rosa”) di uno degli scrittori più controversi e geniali del Novecento: Jean Genet.
In una calda domenica di luglio, abbiamo incontrato il regista Domenico Cucinotta e l’attore Pippo Venuto per una breve conversazione su bellezza, pregiudizio e libertà.
Il teatro dei Naviganti incontra la Compagnia della Fortezza. Due uomini, Domenico Cucinotta e Pippo Venuto che si addentrano in una terra di confine: Jean Genet. Com’è nata l’idea di lavorare su “Il Miracolo della rosa”?
D. C.: “Avevo visto l’ultimo spettacolo della Compagnia della Fortezza, “Santo Genet”. In seguito, Pippo ha incontrato i miei allievi e, raccontando la propria esperienza umana e artistica, continuava a fare riferimento a un romanzo in particolare dello scrittore francese, “Miracolo della rosa”. Ne parlava sempre, al punto che gli ho proposto di cominciare a lavorare su alcuni aspetti di quest’opera. Da qui siamo arrivati allo spettacolo “In veste di rosa”.
Com’è stato l’incontro drammaturgico con questo scrittore così estremo?
D. C.: “Jean Genet è una specie di funambolo che si muove in bilico sopra le cose e gli eventi, in una zona di ambiguità e ci domanda cosa sia il bene, il male, il brutto, il bello, il dritto, il rovescio. Questo è ciò che sta dentro la sua poetica e per me ha rappresentato una scoperta straordinaria. Ed è proprio in questa zona grigia di non definizione che io e Pippo siamo entrati, sotto lo sguardo perennemente provocatorio di Genet”.
I testi di Genet sono una continua contaminazione tra reale e immaginario, tra il biografico e l’elemento lirico. Quanto della tua vicenda autobiografica (Pippo, ndr) c’è nello spettacolo?
P. V.: “Credo che in tutto quello che fa una persona ci sia sempre qualcosa di personale. In questo spettacolo ci sono io, come attore e come uomo. Sicuramente è un lavoro che nasce dal profondo legame che mi unisce a questo scrittore così coraggioso che mescola all’inverosimile realtà e finzione in un infinito gioco di apparenze e ombre. Il non sapere dove finisce la realtà e comincia la narrazione teatrale”.
È stato superato o resiste ancora, nella società di oggi, il tabù intorno alla figura di un uomo che ha avuto un’esperienza da detenuto?
P. V.: “Esistono tante prigioni. Non solo quelle descritte dai cinque passi nel mio spettacolo. Ognuno, spesso inconsapevolmente, diventa il fabbro della propria personale prigione. Il pregiudizio è una di queste”.
Cos’è la libertà?
D. C.: “Per ricollegarmi alla domanda precedente, direi che un uomo, nel momento in cui guarda un altro uomo tralasciando ogni pregiudizio, è già un essere un po’ più libero”.
P. V.: “Potrei rispondere più su cos’è la non libertà. Non ricordo l’autore ma, una volta in un libro, ho letto una frase: “La prigione è una parola scritta sul carro degli uragani”. Se ci penso bene non cosa voglia dire esattamente. Però rende l’idea”.