Gesualdo o delle tragiche conseguenze della cieca ricerca del successo

Gesualdo o delle tragiche conseguenze della cieca ricerca del successo

Tosi Siragusa

Gesualdo o delle tragiche conseguenze della cieca ricerca del successo

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venerdì 29 Novembre 2019 - 08:36

Questo Mastro Don Gesualdo, nel solco di “Espressione Teatro 2020” in apertura di stagione c/o il messinese Teatro Annibale di Francia, gradevolissimo spettacolo, ci ha restituito un classico ben reso in forma centrata e fedele allo script. Il pubblico, che numeroso ha gremito le sale, ha mostrato un gradimento incondizionato della mise en scene diretta da Guglielmo Ferro, figlio del grande Turi, con la consueta maestria .

Le interpretazioni, tutte di elevata qualità, hanno avuto il supporto e si sono avvalse di presenze attoriali di grande spessore, a cominciare da Enrico Guarneri, protagonista indiscusso, che ha saputo offrire un personaggio indimenticabile nelle infinite sfaccettature,che si incanalano comunque in un sentire l’esistenza caratterizzato dall’attaccamento alla materialità,quale strumento di riscatto.

Il romanzo verghiano, pubblicato nel 1889, è ambientato a Vizzini fra il 1820 e il 1850, se si eccettua la sezione della morte del Mastro che trova,invece, allocazione a Palermo. Gesualdo Motta, ex manovale appunto, attraverso un duro lavoro e una ferrea organizzazione, infarcita di una personale indefessa etica,tenta di risalire la scala sociale con esiti poco fortunati. Dopo “I Malavoglia”, tragedia silenziosa di una famiglia di pescatori siciliani a contatto con gli effetti della modernità, che sconvolgono usi, costumi e tradizioni di un mondo ancestrale, il “Ciclo dei vinti”, trova la sua seconda parte proprio nel “Mastro Don Gesualdo”, ove il muratore arricchito dell’intitolazione continua ad essere respinto da quel mondo cui anelava appartenere, portando a esemplificazione quell’amaro destino che il mondo moderno riserva a molti suoi componenti.

L’incipit del romanzo,fedelmente trasposto nella rappresentazione-che però si apre con le battute finali della storia e poi procede per flash-back- ci introduce nel bel mezzo di un incendio che sta devastando la casa dei Trao, nobili decaduti di Vizzini, e in tale contesto don Diego scopre in camera della sorella Bianca il cugino don Ninì Rubiera; anche Mastro Gesualdo Motta, definito altresì “Don” con ipocrita deferenza allo status borghese che lo stesso si è costruito intanto con la costruzione dei mulini,accorre fra gli altri.. Ad un ricevimento in casa Sganci, parenti dei Trao, inizia a prendere forma il progetto di sposare Bianca, compromessa con Don Ninì, che darà compiuta forma alla logica utilitaristica della scalata , che prosegue con l’acquisto a un’asta comunale delle terre del barone Zacco, in cambio di un sussidio comunale. Poi i moti di Palermo del 1820 si diffondono e Gesualdo deve tutelare i suoi averi rifugiandosi c/o Diodata, – fatta da lui maritare con Nanni l’Orbo – che nonostante sia l’unica che gli dia pace e serenità, non ha voluto sposare,disconoscendo i suoi stessi due figli. Bianca, intanto, fredda e assente nei suoi confronti, passiva, ha partorito Isabella che, tanti anni dopo, torna dal collegio a Vizzini per l’epidemia di colera del 1837 e vorrebbe frequentare Corrado, che versa in condizioni di povertà, e invece le viene imposto un matrimonio con il duca di Leyra, in cambio di una ricca dote. Il mondo familiare di Gesualdo sta crollando, Bianca si ammala gravemente di tisi e morirà, Gesualdo è minato da un cancro e costretto, non volendo salire sul carro dei vincitori dei moti rivoluzionari del 1848, ad accettare l’ospitalità del duca.

Il Canonico Lupi, uno dei potentati paesani, insieme a don Ninì, al barone Zacco, a donna Giuseppina Aloisi, sono personaggi tutti di negativa espressione di un mondo in declino. Gesualdo è in pieno un vinto verghiano e sarà passivo spettatore del crollo del suo impero, sperperato dal genero (che disprezza e che lo rifiuta così come la figlia Isabella, così simile in questo alla madre, pur essendo una ribelle), e al fine morirà in totale solitudine, rimpiangendo la mite e devota Diodata.

L’attaccamento ai beni, alla roba, lo vincerà, generando una esistenza priva di affetti veri. Francesca Ferro, Rosario Minardi, Ileana Rigano, Rosario Marco Amato, Pietro Barbaro, Giovanni Fontanarosa, Vincenzo Volo, Elisa Franco, Alessandra Falci, Federica Breci, oltre che il già menzionato Enrico Guarneri, sotto l’egida dell’Associazione Culturale “Progetto Teatrando” di Catania, hanno dato vita agli intensi personaggi verghiani, con valenza e brio. Ben congegnate le scenografie di Salvo Manciagli, che hanno sapientemente delineato i differenti scenari, così come i costumi di Carmen Ragonese.

Le musiche di sottofondo si sono infine attestate a Massimiliano Pace. Una rappresentazione lodevole, un plauso a Guglielmo per il riuscito omaggio al padre Turi Ferro, perfetto interprete verghiano, già protagonista della rappresentazione del 1967.

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