Giacomo Matteotti, un delitto di Stato

Giacomo Matteotti, un delitto di Stato

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Giacomo Matteotti, un delitto di Stato

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domenica 02 Giugno 2024 - 07:00

Una rilettura di una tragedia nazionale cento anni dopo l'omicidio fascista. Un'analisi di Nicola Bozzo

In occasione della ricorrenza del 2 giugno, festa della Repubblica, e del centesimo anniversario dell’uccisione fascista di Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, ospitiamo un intervento di Nicola Bozzo. Avvocato, esperto in materia costituzionale e scrittore, Bozzo ripercorre con scrupolosa cura storica e passione civile il delitto Matteotti. E ne contesta un’interpretazione riduttiva, come “un crimine di teppisti scalmanati”, che a destra, e non solo, è stato veicolato come messaggio.

L’immagine in evidenza è tratta dalla pagina Facebook del museo di Roma, che a Palazzo Braschi ha organizzato la mostra “Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia”.

Lo scorso 30 maggio l’attore Alessandro Preziosi ha riletto e interpretato una parte del discorso che il segretario del Partito socialista unitario pronunciò alla Camera dei deputati il 30 maggio 1924, denunciando il clima di violenza fascista in cui si erano svolte le elezioni.

Delitto Matteotti, una rilettura di una tragedia nazionale

di Nicola Bozzo

Nelle contorte vicissitudini processuali del delitto Matteotti, la “verità giudiziaria” non è che una parte della verità storica. Solo la riconsiderazione critica di fatti e personaggi basata sull’esame e il racconto della documentazione consente l’accertamento di questa tragedia nazionale.
Mentre l’istruttoria romana (il Tribunale d’accusa ordinario che procedeva per il reato di omicidio) si avviava alla conclusione, nel dicembre del 1924 l’iter processuale si ingarbugliò: il giornalista cattolico Giuseppe Donati, direttore del quotidiano Il Popolo, denuncia al Senato il generale De Bono per associazione a delinquere avendo concorso nell’uccisione dell’onorevole Matteotti. Lo Statuto Albertino prevedeva che, per giudicare i senatori nonché i governanti colpevoli di alto tradimento, il Senato si costituisse in alta Corte di Giustizia.

Un processo farsa

Nel giugno del 1925, la Commissione Istruttoria dell’Alta Corte proscioglie Emilio De Bono pur in presenza di imponenti riscontri probatori. Col proscioglimento del gerarca, gli atti dell’istruttoria ritornano alla sezione d’accusa della Corte d’Appello di Roma. Con sentenza del primo dicembre 1925, la sezione d’accusa del Tribunale di Roma si limita a rinviare a giudizio i sequestratori Dumini, Malacria, Poveromo, Viola e Volpi per omicidio preterintenzionale. Infine, per compiacere il regime, nello stesso dicembre del 1925, la Cassazione accoglie l’istanza del rappresentante dell’accusa presso la Corte d’Appello di Roma e trasferisce il processo lontano dalla Capitale per “gravi motivi di sicurezza pubblica”. La sede prescelta è Chieti. Qui si celebra, sostanzialmente un processo farsa.

La provvidenziale amnistia del luglio 1925 esclude le responsabilità per il sequestro di persona; l’esistenza dei mandanti non è nemmeno ipotizzata e il 24 marzo 1926, a Dumini, Poveromo e Volpi sono inflitti cinque anni per omicidio preterintenzionale, di cui quattro condonati per indulto.

Cade il fascismo e si sente la necessità di un processo vero


Dovranno trascorrere circa vent’anni perché, in un totale mutato contesto storico seguito alla caduta del regime fascista, su richiesta dell’Alto Commissario per la punizione dei crimini fascisti – l’azionista Mario Berlinguer -, la Cassazione dichiari giuridicamente inesistente la sentenza del marzo 1926. Si rende necessario un nuovo processo, questa volta contro Mussolini Benito e altri, assegnato alla Corte d’Assise Speciale di Roma. Tuttavia, il procedere della Storia muta interamente il segno di questo nuovo giudizio.
Il gerarca De Bono, infatti, scopertosi monarchico, moderato e legalitario come gli altri gerarchi (ad esempio Ciano, Bottai, Grandi e Federzoni) nella notte del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 che segnò sostanzialmente la fine del regime, era stato fucilato a conclusione del famoso processo di Verona in cui i firmatari dell’ordine del giorno “Grandi-Bottai”, furono giustiziati dal fascismo repubblicano di Salò. E, in una sorta di nemesi, De Bono andava incontro alla morte per mano dell’ultimo delirio totalitario del Duce, con il quale veniva, dal nuovo processo romano, incolpato per il delitto Matteotti. Naturalmente non si potette procedere per l’imputato Benito Mussolini per l’ovvia ragione che anche lui non apparteneva più al mondo dei vivi.

L’amnistia di Togliatti: l’Italia non ha avuto né un processo di Norimberga né un generale De Gaulle

Sfuggirono alla condanna di Verona sia Federzoni, ministro degli Interni durante la crisi Matteotti, protetto dal Vaticano presso l’Ambasciata portoghese presso la Santa Sede, Dino Grandi, anch’egli, per intermediazione della Santa Sede riparato in Portogallo e Giuseppe Bottai che, in una sorta di tardiva espiazione, si arruola nella Legione Straniera per combattere accanto ai francesi contro l’esercito nazista in quella mortifera allucinazione da finis Europae.
Bottai, Grandi e Federzoni vissero tranquillamente in Italia nel dopoguerra. Tutti beneficiari dell’amnistia Togliatti. L’Italia non ha avuto né una Norimberga, né un generale De Gaulle.

Un fascismo implicito nei gangli della democrazia repubblicana

Giudici, alti burocrati, vertici militari, perfino i capi dell’Ovra assunsero i più alti gradi nelle amministrazioni repubblicane. Questo spiega una certa perduranza del Fascismo e una sorta di fascismo implicito collocato nei gangli della democrazia repubblicana. E questo spiega anche quell’incredibile sequela di stragi impunite, di strategia della tensione, di presenza tangibile di un retro-stato apparentemente invisibile quasi come un punto cieco che ci ha accompagnati per un quarantennio.

Una normativa di clemenza era necessaria ma ci fu una grottesca applicazione dell’amnistia Togliatti

È ovvio che una normativa ispirata da una vocazione clemenziale poteva e doveva accompagnare la fine del Fascismo, ma l’amnistia Togliatti sia nella sua formulazione, sia nella sua veramente grottesca applicazione e interpretazione da parte dei vertici della Cassazione si rivelò uno dei punti più oscuri del nostro più recente passato. Un’affermazione dell’assoluta prevalenza delle ragioni di tattica e di realismo politico sulle più profonde ragioni di giustizia e di verità.
Come è noto, i cosiddetti decreti luogotenenziali del 1944 e del 1945 sia del Governo Badoglio, sia di quello Bonomi, avevano, nella sostanza, affermato la natura non legale del Fascismo: più precisamente dei provvedimenti cosiddetti fascistissimi, successivi, appunto, al delitto Matteotti (soppressione dei partiti politici, della libertà di stampa, della libertà di manifestazione del pensiero, etc.), e comunque avevano elevato a dignità di reato – sia pure posteriore – quegli atti rilevanti finalizzati all’instaurazione, al rafforzamento e al mantenimento dello stato fascista, compiuti, naturalmente, dai titolari di elevate funzioni nell’ambito politico, civile e militare.

Ci fu addirittura da parte di una certa cultura giuridica, una sorta di orrore per la natura retroattiva di questi reati. Cioè per il fatto che andavano a incriminare condotte che, nel momento in cui erano compiute, non erano previste dalla legge come reati. Insistette particolarmente su questo aspetto, in un articolo sulla rivista Il Ponte, il noto giurista Arturo Carlo Iemolo, che peraltro era avvocato del gerarca Federzoni nel giudizio, come detto, risoltosi con l’applicazione dell’amnistia Togliatti.

Fu lo stesso Calamandrei a rispondere sulla rivista da lui fondata, argomentando che il principio di retroattività della legge penale dispiega il suo valore in un ordinamento appunto ispirato al principio di legalità, cioè di soggezione alla legge di coloro che esercitano funzioni pubbliche. Certamente non era questo il caso del Fascismo. In effetti, il giurista Iemolo pretendeva troppo: cioè che le gerarchie fasciste configurassero come reato ciò che quotidianamente andavano compiendo nelle forme più dispotiche e totalitarie.
Del resto che cos’è il diritto al cospetto dell’idolatria dell’azione, vero unico fondamento dell’esperienza fascista? Niente. Cioè una forma effimera che dev’essere sempre superata dalla “necessità” che l’agire impone. La Storia è il palcoscenico dell’efficacia, nel senso che ciò che si afferma è ciò che è giusto si affermi. Non ci può essere successo storico slegato dalla convinzione della propria necessità. In tutto questo il diritto è un misero figurante destinato a essere permanentemente obliato dalla necessità di potenza e di potere che ogni singola circostanza impone.
Del resto, gli stessi fedeli, leguléi del regime, arrivarono a teorizzare la natura del diritto come continua azione, come continua realizzazione, come permanente fedeltà allo Stato fascista.

Nell’enciclopedia italiana, Mussolini (probabilmente per penna di Giovanni Gentile) già individuava nella guerra e nello spirito guerriero la forma più sublime della spiritualità fascista: l’offerta della vita in battaglia come pegno per una vita ideale eterna. Ma il Duce adulava in questo scritto lo spirito della guerra a prescindere dalla guerra in atto. Esso era un atteggiamento morale, un contegno di fronte alla vita, la forma più elevata di una sorta di eroismo quotidiano.

Tutto ciò implica la mancanza di ogni forma, il disprezzo di ogni remora, di ogni limite. Forme putrefatte di un mondo ormai inattuale. Altra nemesi della storia fu che il Duce, teologo della bella morte, fuggisse travestito da soldato tedesco, nel tentativo di sottrarsi al proprio destino storico. In quel di Dongo, dove avvennero le fucilazioni dei gerarchi, fu più fascista, dunque, il gerarca Pavolini, vero poeta, come disse Bottai nei suoi diari, del culto della personalità tributata a Mussolini, primo dittatore della società di massa. Pavolini, di fronte al plotone di esecuzione ordinò agli altri condannati di stare sull’attenti e con la bocca già colma di sangue, urlò “Viva il Fascismo!”.

La presidente Meloni ha parlato di “squadrismo fascista” ma non si può ignorare che fu un delitto di Stato


Se questa è una traccia della complessità che ogni ricostruzione storica esige, ritornando sempre sui suoi passi (anche per le risultanze archivistiche che via via sono emerse in questo secolo), la cronaca politica odierna è avvilente.
Gli avventati giudizi storici che hanno accompagnato il centenario del delitto di Giacomo Matteotti, hanno probabilmente inferto un’ulteriore offesa alla Storia e alla memoria di Giacomo Matteotti. La presidente del Consiglio Meloni è stata lapidaria nell’affermare che furono degli squadristi fascisti a uccidere Matteotti, tessendo, poi, lodi sul coraggio dell’uomo politico.

Non si può ricostruire il delitto Matteotti come un crimine di teppisti scalmanati


Certamente furono degli squadristi fascisti, capeggiati da Amerigo Dumini a eseguire prima il rapimento e poi l’omicidio, ma non può essere ammessa una ricostruzione che in modo tranciante elude il nucleo essenziale storico e politico di questa vicenda. E cioè che il delitto Matteotti fu un delitto di Stato.
Queste banali dichiarazioni sono state accompagnate da altrettanto banali chiacchiere che anche nel campo della cosiddetta sinistra riconoscevano coraggio e ammissione della verità in quella che non
è altro che la ricostruzione del delitto Matteotti come un crimine di teppisti scalmanati.

L’astensionismo al 50% e la decomposizione di un sistema politico e democratico

P.S.
Mi chiedo, visto che si parla tanto di nuovo fascismo, chi oggi interpreta il ruolo del vecchio sistema liberale decrepito dei primi del Novecento che permise la piena affermazione di Mussolini e del Fascismo. Peraltro, il fatto che il 50% degli elettori ormai non vota più è certamente una sorta di prova del nove della decomposizione di un sistema politico e democratico. Ma questa è un’altra storia.

Nicola Bozzo

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