Lo spettacolo con Giuseppe Zeno e Fabio Troiano ha aperto la stagione di prosa al Teatro Vittorio Emanuele di Messina
MESSINA – L’adattamento teatrale assai fedele di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli ha ben ripercorso per la prima volta la sceneggiatura di Mario Monicelli e Suso Cecchi D’Amico, in uno ad Age & Scarpelli, della celeberrima opera filmica omonima, restituendo un gruppetto più o meno amicale di aspiranti ladri per… sopravvivenza, che progettano il colpo del secolo.
Siamo nell’Italia post-bellica, in quel di una Roma scalcinata, ove necessita sbarcare il lunario (allora come ai nostri tempi, e il passato si fa presente) e gli scapestrati personaggi ben vividi nella nostra memoria dal 1958 – data di uscita del mitico lungometraggio, per fortuna sovente riproposto – riprendono vita e parola in un corale affresco.
La regia di Vinicio Marchioni e Massimo De Santis ha ben tentato di riproporre il registro amaro e insieme leggero monicelliano – insuperabile – che aveva affrontato una tematica drammatica utilizzando la commedia e la chiave dell’ironia, riuscendo a divenire un classico.
I novanta minuti inframmezzati da intervallo, hanno affascinato e avvinto gli spettatori del Vittorio Emanuele, sia nelle fasi prodromiche, di sicuro determinanti, che per ciò che riguarda l’esito finale, del noto insuccesso del furto improvvisato.
Ottime le rese di ognuna delle performance attoriali – dal Tiberio di Fabio Troiano, di gradevole naturalezza e humor, al Peppe (il Pantera), balbuziente pugile, interpretato da Giuseppe Zeno, al Mario, l’eterno indeciso, di Antonio Grosso, passando per il siculo macchiettistico Ferribbotte di Vito Facciolla, il Cosimo di Paolo Giovannucci, assai valente, e il Capannelle, dalla incontenibile fame di Salvatore Caruso; Marilena Anniballi nelle parti di Carmela\Nicoletta e Ivano Schiavi, che ha impersonato Dante, hanno del pari offerto buone prove interpretative: il confronto con i mostri sacri, del calibro di Mastroianni e Gassmann di sicuro non agevolerebbe un razionale giudizio e non appare pertinente.
Strappano sorrisi questi componenti di una compagnia “sgualcita”, sempre in equilibrio con quei tratti diversificati e provvisti di duplicità e ciascuno a suo modo caratterizzato, vere maschere italiane in rappresentazione.
Nel film, il grande Totò interpretava l’esperto scassinatore di casseforti, Dante Cruciani, e in questo adattamento per il teatro la resa di Ivano Schiavi se ne discosta in maniera evidente. La cupezza, in conclusione, la fa da padrone, soprattutto nelle fasi introspettive, che lasciano trasparire la schiettezza di quella umanità semplice che sconfina in gesta maldestre per superare la miseria.
La piece trova compimento in una resa in mestizia, non in una disfatta o sconfitta schiacciante, e si condensa in una rassegnazione ad uno stato di cose che paiono immutabili e vanno addolcite da un buon piatto di pasta e ceci.
La scenografia di Luigi Ferrigno, sobria e per la durata dello spettacolo immutata, se si eccettuano le scene finali, ove è stato allocato del semplice mobilio, ha consentito un ottimale uso attoreo dello spazio, e, nel finale ha ben reso la percezione della tridimensionalità. Le musiche, ancora, di Pino Marino, mai totalizzanti, presenti in particolare nell’incipit della mise en scene, e nel sottolineare le parti non parlate. Le luci di Giuseppe D’Alterio e i costumi di Milena Mancini hanno completato abilmente il prodotto finale, davvero convincente.
E mentre lo sgangherato gruppo si scioglie in una commistione di delusioni e caduta delle aspirazioni, si constata come l’esistenza viri sovente verso il paradossale, condito di situazioni molto buffe e come infine questa vita presenti sempre il salato conto, nell’Italia povera e vitale, magica di allora, come in questa, atonica e immobile e contrassegnata da inaccettabili diseguaglianze socio-economiche di oggi.