Un nostro lettore legge il film del momento da un punto di vista particolare, che si distacca dalle diffuse celebrazioni di un'opera cinematografica pregevole ma non del tutto esente, a suo parere, da qualche limite.
Il 16 ottobre è uscito nelle sale Il giovane favoloso, l’atteso film di su Giacomo Leopardi, che ha ricevuto lusinghieri apprezzamenti al recente festival cinematografico di Venezia. Di converso, sul web si possono leggere le critiche più diverse del film, dagli elogi sperticati alle stroncature più nette. Il regista Mario Martone non ha voluto offrire al pubblico una biografia di Giacomo Leopardi, ma una interpretazione della sua personalità umana e poetica. Egli trascura pertanto alcuni periodi della sua vita e si sofferma su altri. Per lo scrivente, si tratta di una interpretazione nel complesso pregevole e abbastanza verosimile. L’attore Elio Germano, nei panni del «giovane favoloso», appare abbastanza convincente, sebbene la sua gestualità sia sembrata a taluni pletorica e incongrua.
Il film dà dato ampio spazio al periodo dell’adolescenza del poeta, segnata dai sette anni di «studio matto e disperatissimo». Vengono completamente trascurati il primo soggiorno a Roma nonché i periodi trascorsi a Milano, Bologna e Pisa. Con riguardo ai diversi mesi trascorsi a Roma e a Pisa, si tratta di omissioni di un certo rilievo. Va detto che il soggiorno a Roma, presso gli zii Antici, segna profondamente il ventiquattrenne Giacomo poiché gli arreca la prima grande disillusione riguardo al mondo e agli esseri umani. Sino allora egli credeva che al di fuori di Recanati il mondo fosse pieno di attrattive per un giovane alla ricerca di una vita ricca di esperienze ed emozioni. Anche il soggiorno a Pisa avrebbe meritato almeno qualche scena, poiché in questa città, dal clima particolarmente mite, i malanni fisici concedono un po’ di tregua al poeta, che può vivere un periodo di grande fervore creativo.
Nelle scene iniziali del film ci viene presentato un fanciullo dall’ingegno precocissimo ed eccezionale, spronato allo studio dal padre Monaldo, interpretato da Massimo Popolizio. Vengono poste in rilievo le dinamiche familiari che vigono nel palazzo dei conti Leopardi: l’affetto e la complicità dei quasi coetanei Giacomo, Carlo e Paolina, la presenza talora ossessiva del padre e del precettore, la lontananza fisica e affettiva della madre, Adelaide Antici. Monaldo ama molto il figlio primogenito e vorrebbe che questi ricambiasse ogni tanto i suoi gesti di tenerezza, mentre l’adolescente è scontroso nei suoi riguardi. Egli si augura che Giacomo rimanga a Recanati e diventi il filologo di rango che egli stesso non è riuscito ad essere. Un fratello della madre, invece, spera che egli metta il suo ingegno al servizio della Chiesa. Giacomo cerca intanto la sua strada, aborrendo l’uno e l’altro progetto. Il conflitto con Monaldo non può che inasprirsi.
La marchese Adelaide Antici appare poco nel film. Del resto, è la grande assente nell’educazione dei figli. È noto che i biografi di Leopardi la descrivono come una donna gelida, nevrotica e bigotta. L’attrice che la interpreta, Raffaella Giordano, esprime soprattutto il suo carattere gelido. Forse, il bisogno di amore non è uguale in tutti i bambini, ed è Giacomo, più degli altri suoi figli, a soffrire per la mancanza in lei di qualsivoglia sguardo improntato alla tenerezza. In Giacomo la sensibilità è vivissima, forse ancora più della stessa intelligenza, e il film evidenzia anche questo aspetto della sua indole.
Opportunamente, il regista pone in luce l’importanza del carteggio intrattenuto dal giovane Giacomo con Pietro Giordani, il primo studioso italiano a riconoscere l’eccezionalità del suo ingegno. Giordani (interpretato da Valerio Binasco) è un letterato di impronta classicista, che comunque attribuisce alla letteratura il compito di elevare il tenore della vita civile. Nei confronti del giovane, come attestano i brani dell’epistolari recitati nel film, egli si rivela una valida guida intellettuale, nell’esortarlo a studiare in modo metodico e a scrivere in prosa ancora prima di comporre poesie. Al tempo, l’attenzione di Giacomo è contesa tra gli studi eruditi, le traduzioni e i primi componimenti poetici. Nel complesso, negli anni recanatesi il film lo presenta più come un erudito che come un poeta. Del resto, è lo stesso Leopardi a scrivere di essersi convertito solo dopo molti anni di studio «dall’erudizione al bello» e, in seguito, «dal bello al vero».
Allorché Giordani rende visita al giovane, Monaldo nutre il sospetto che possa inculcare al figlio le sue idee liberali. Si tratta di un sospetto poco fondato: Giacomo non aderirà mai agli ideali liberali. Ricercherà, piuttosto, un suo spazio di libertà, lontano da Recanati.
Dopo avere presentato il giovane Leopardi, talora promeneur solitaire nelle campagne recanatesi e talaltra recluso nel «paterno ostello», il film opera un “salto” di circa dieci anni nella vita del poeta. Lo rivediamo quindi a Firenze, quasi trentenne. Conosce già Antonio Ranieri (Michele Riondino), l’esule napoletano, scaltro e sciupafemmine, con il quale stringerà un sodalizio che durerà sette anni, ovvero sino alla sua morte. Del periodo fiorentino, il film pone in rilievo le difficoltà del rapporto di Giacomo con gli intellettuali liberali del circolo dell’Antologia e l’amore non corrisposto per l’avvenente Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis).
Allorché scopre che l’ineffabile Fanny ha una relazione con Antonio Ranieri, la disperazione di Giacomo raggiunge il culmine. Il regista lo ritrae allora dall’alto, rannicchiato in posizione fetale, vicino alla riva dell’Arno. Si tratta di una delle scene più suggestive dell’opera di Martone, sottolineata peraltro da una colonna sonora definita “distonica” da un critico accorto.
Si è detto da taluni che nel film si avverte la mancanza del poeta Leopardi. In realtà, il protagonista recita diversi versi delle poesie del Ciclo di Aspasia (Aspasia è la trasfigurazione poetica di Fanny). Ancora prima, egli recita alcuni versi de La sera del dì di festa e L’infinito. Forse è più esatto dire che manca nel film il Leopardi dei “grandi idilli”, ovvero le opere nelle quali trovano espressione gli elementi che caratterizzano più profondamente la sua poetica. Vi è solo una allusione indiretta ad essi, e la si può rinvenire nelle poche scene che riguardano Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere morta di tisi (colei che ispira A Silvia).
Nel complesso, il film privilegia gli ultimi anni della vita di Leopardi, vissuti con Antonio Ranieri tra Napoli e Torre del Greco. Si tratta forse della parte meno riuscita del film. Mario Martone, che per quanto riguarda la ricostruzione degli anni recanatesi dimostra un certo rigore filologico, qui si lascia prendere la mano dal gusto del grottesco e dell’aneddotico. Ci viene presentato un Leopardi curvo sino all’inverosimile, che passeggia tra i vicoli di Napoli, ingurgita gelati incurante delle proibizioni dei medici, e in un’occasione è vittima di una burla feroce, ordita proprio da Antonio Ranieri. L’affetto che questi dimostra nei confronti di Giacomo non si rivela del tutto disinteressato allo spettatore del film. Peraltro, il giovane raccomanda alla sorella Paulina di custodire con la massima attenzione le carte dell’amico, che in seguito pubblicherà.
Neppure a Napoli, quindi, Giacomo incontra qualcuno che sappia davvero corrispondere al suo debordante bisogno di amore e di affetto. Se, ancora adolescente, scrive a Pietro Giordani che il suo desiderio più grande è conseguire la gloria, dieci anni dopo confesserà de visu allo stesso amico che, in realtà, ciò di cui ha più bisogno è l’amore, l’affetto, l’entusiasmo, la pienezza della vita. Come molti esseri umani, il poeta giunge a comprendere se stesso, e le sue esigenze più profonde, attraverso un percorso accidentato e segnato dalle disillusioni più amare.
Qualche critico ha rilevato che il film presenta un Giacomo Leopardi nichilista. In realtà, un breve colloquio con la sorella Paolina evidenzia che egli identifica l’unica verità attingibile dall’uomo in quella che si rivela nell’esercizio inesausto del dubbio. Il Leopardi di Martone sembrerebbe pertanto più uno scettico pertinace che un nichilista. E, se avesse visto in lui soprattutto il nichilista, il regista non avrebbe concluso il film con alcune scene notturne del Vesuvio accompagnate dalla recitazione dei versi de La ginestra. Non è l’intellettuale nichilista ad affiorare qui, ma il poeta consapevole dell’indifferenza della Natura nei confronti dell’uomo quanto estraneo al mito delle «magnifiche sorti e progressive», e che lancia quindi un appello agli esseri umani affinché il vincolo di solidarietà tra di loro valga a mitigare le difficoltà della vita di ognuno.
Nunzio Bombaci