Si dice che avrebbe voluto parlare con Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dell’ISIS. Il gesuita Paolo Dall'Oglio rimane un esempio di dialogo islamo-cristiano.
Periodicamente si torna a parlare di Paolo Dall’Oglio. Lui, gesuita, figura oggi quanto mai necessaria e tuttavia tragicamente assente. Nato a Roma nel 1954, ha rifondato negli anni Ottanta in Siria il monastero di San Mosé l’Abissino (Deir Mar Musa el-Habashi), luogo abbandonato da tempo (l’ultimo monaco lasciò il monastero prima del 1831). Ha così resuscitato la comunità monastica dedita al dialogo con i musulmani. E però, il 29 luglio del 2013 Dall’Oglio è stato rapito in Siria da un gruppo di jihadisti vicini all’Isis, e da allora non se ne hanno più notizie.
Un uomo tutto d’un pezzo, Padre Paolo Dall’Oglio. Circolano ancora voci che non sia morto, che sia detenuto in qualche prigione segreta. L’ultima risale a marzo di quest’anno. Ad aprile, invece, è stato pubblicato un resocontoinverso che parla della sua morte quasi immediata. Si dice che avrebbe voluto parlare con Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dell’ISIS, avrebbe voluto convincerlo della necessità della pace e della convivenza, avrebbe voluto parlargli di Dio, quell’unico Dio pregato in modo diverso da cristiani e da musulmani.
Cristiano islamofilo, profondamente innamorato della religione muhammadica, Paolo Dall’Oglio ha sempre avvertito l’urgenza di dialogare con i musulmani per annunciare loro la Buona Novella. Nel tempo ha quindi sviluppato quella che ha definito una duplice appartenenza islamo-cristiana: «Io sono musulmano a causa dell’amore di Gesù per i musulmani e per l’Islam. Musulmano secondo lo spirito e non secondo la lettera», ha dichiarato. E ha spiegato: «Un cristiano può essere convinto di avere avuto la grazia di avvertire la fondatezza in Dio della religione musulmana, e dunque della profezia muhammadica. Nello stesso tempo, questo cristiano rimane assolutamente convinto che Cristo è la sua salvezza e la salvezza dei musulmani stessi». E difatti, come ha scritto lui stesso, «tutto ciò che vi è di giusto, di sincero, di autentico nella profezia di Muhammad appartiene alla Chiesa e non le è estraneo».
Nonostante la sua fine tragica, Paolo Dall’Oglio ha sempre parlato e continua a parlare di speranza: il “buon vicinato”, come lui lo chiama, è possibile sebbene non semplice, è una prassi che deve avere il tempo di radicarsi, fondata su un rispetto non banalmente astratto, quello dei diritti umani, bensì sacrale, avente cioè radici in cielo e sviluppantesi in «una pratica di riconoscimento dell’autenticità spirituale» dell’altro. Bisogna essere consapevoli che il futuro «dipende da una responsabilità spirituale condivisa», come lui stesso ha spesso dichiarato.
A tal fine bisogna superare la naturale rigidità identitaria di ciascun gruppo sociale. Il luogo dove ciò avviene più spontaneamente è il confine– è proprio nelle zone di confine che si pratica attivamente il buon vicinato. Là si creano mondi concettuali e linguistici condivisi e non paralleli. Là la Chiesa cristiana e la Umma (comunità dei credenti) musulmana sono annodate e si parlano. Ebbene, qual è il luogo di confine per eccellenza? Il Mar Mediterraneo.
Ed è per questo che il Mediterraneo non può essere cristallizzato in opposte identità conchiuse e statiche. Il Mediterraneo chiede di vivere apertamente il polimorfismo e l’eterogeneità che lo contraddistingue, dando costantemente vita a nuove combinazioni e a nuove convivenze. Padre Paolo Dall’Oglio ha efficacemente incarnato lo spirito di questa regione, e la comunità monastica di Mar Musa è il suo lascito.
Tra l’altro, come acutamente ha spiegato, la chiusura identitaria è sintomo di una mancanza di fiducia nei confronti della Provvidenza: se i discorsi sul dialogo fanno così paura ai cosiddetti tradizionalisti, il motivo è da ritrovarsi in una profonda e radicata insicurezza, e cioè, chiarisce Dall’Oglio, «quella che Dio ci abbandoni, che non ci sia fedele. Ecco perché cerchiamo di fare meglio di lui, proteggiamo le nostre identità, i nostri particolarismi, ci attacchiamo a quello che sappiamo».
Proprio nel tentativo di superare la folle rigidità identitaria del nascente “Stato Islamico”, o Isis, Padre Paolo ha perso la vita. Proprio lui che, una volta, ha dichiarato: «Se dovessi essere assassinato, vorrei che non fosse per mano di un musulmano. Ci mancherebbe solo che io diventassi l’ennesimo martire cristiano che alimenta l’odio per i musulmani: eh, no! Preferire mille volte essere ucciso da un drogato, un mafioso, un disperato, purché non sia musulmano!»