Cominciato il processo a Messina all'untore Aids che contagiò la compagna, morta anni dopo senza poter essere curata
Il ricordo di una giovane vita spezzata troppo presto, gli occhi lucenti di una mamma amorevole convinta che vedrà crescere suo figlio. Il ricordo degli ultimi anni della sua vita, lacerata da dolori e malattie che si susseguono fino alla morte. E la scoperta, quando è ormai troppo tardi, che la sua malattia è una sola, e si chiama AIDS. Poi altri ricordi, quelli di un’altra giovane donna: l’ebbrezza della relazione con un uomo poi l’incubo, che piomba a coprire di terrore la vita intera: la scoperta che quell’uomo ha l’HIV, non te lo ha detto, ti ha infettato.
Istantanee, terribili, da un processo, quello cominciato ieri a Messina, in Corte d’Assise, al cinquantaseienne messinese accusato dell’omicidio della compagna, morta anni dopo di AIDS. L’uomo è alla sbarra per aver infettato altre donne, tacendo a tutte, ad eccezione di una unica compagna più recente, di essere ammalato di HIV. L’udienza di ieri, aggiornata a novembre prossimo, è stata caratterizzata dalle toccanti testimonianze della sorella della vittima e da quella, a porte chiuse, di un’altra donna contagiata a sua insaputa.
Per circa un’ora e mezza la sorella della giovane professionista messinese ha ripercorso la denuncia che ha portato l’uomo in carcere, ma soprattutto ha ripercorso il calvario della vittima, morta troppo giovane dopo atroci sofferenze, anche perché troppi medici non le hanno diagnosticato per tempo la reale causa dei suoi mali, tanto che sotto inchiesta ci sono anche 3 camici bianchi, imputati di omicidio colposo. Durante il suo racconto i genitori, prima commossi poi in lacrime, hanno accusato un malore ed hanno dovuto lasciare l’aula, allontanandosi da Palazzo Piacentini.
I giudici hanno anche sentito alcuni degli investigatori che hanno raccolto le denunce e le testimonianze, ed hanno aperto il dibattimento dopo aver chiuso, con un’articolata ordinanza molto tecnica, le questioni preliminari.
La Corte d’Assise ha ammesso tra le parti civili la sorella della vittima e i suoi genitori, assistiti dagli avvocati Bonaventura Candido ed Elena Montalbano, ma ha detto no alla richiesta di costituzione del Cedav, il Centro donne anti Violenza.
No anche alle eccezioni preliminari del difensore del così detto “untore”, l’avvocato Carlo Autru Ryolo, che aveva paventato la nullità di tutti gli atti di indagine. Gli accertamenti, infatti, sono stati svolti parallelamente ma in un unico fascicolo per il cinquantaseienne e per i medici. Soltanto a questi ultimi, però, è stato consentito di partecipare ai così detti “accertamenti tecnici irripetibili”, come ad esempio l’autopsia. Una questione che secondo i giudici invece non inficia l’accusa.