Non ha mai abbandonato la sua squadra anche quando la malattia si è affacciata nella sua vita. La storia di un'autentica bandiera
MESSINA – Il mondo del tifo viene spesso considerato fenomeno sociale problematico, a volte stigmatizzato e considerato, con approssimazione, fonte esclusivamente di disordini. In realtà, solo a chi riesce di penetrarne la dimensione profonda, conoscerne le origini, cause e dimensione emotiva che scaturisce innanzi ad un evento sportivo, può pensare di comprenderne le ragioni del cuore che si nascondono dietro semplici colori, una maglia, una bandiera.
La storia di Pietro Bianco è una di quelle piccole narrazioni che meritano di essere lette, ascoltate e assorbite con l’attenzione che si conviene innanzi ad un’autentica bandiera. Posso dire di avere l’onore di raccontarla, scrivendola e avendola in porzione condivisa, forse anche senza merito alcuno.
In tanti conosciamo Pietro il biancoscudato. Il suo Messina non lo ha mai abbandonato anche quando si sono affacciati nella sua vita seri problemi di salute. Tra i pensieri che lo spingevano a lottare, quello di tornare a seguire la squadra nelle “fredde”, e tante volte anche con poche altre anime, giornate al “Franco Scoglio”, a macinare chilometri al seguito della squadra.
“Mi piace andare indietro nel tempo. Mio padre ha svolto un ruolo importante nell’allargare le mie vedute sportive e, visto il mio interesse, mi ha portato alla stadio. Parliamo della fine degli anni settanta, anche se in maniera continua ho iniziato a frequentare l’anno prima della promozione in C1 con Ballarò in panchina”.
In quegli anni il “Celeste” era parecchio frequentato: “Era stracolmo di gente. Parliamo di un periodo in cui ci si accomodava su cemento in alcuni settori e su tavoloni in altri. E si giocava contro squadre che forse oggi sono addirittura scomparse dalla mappa calcistica”.
Era un altro calcio: “Si, ci si ritrovava sempre al solito orario senza quella puzzetta sotto il naso di oggi. E ricordo mia zia Amelia: mi ha dato lei i soldi per farmi il primo abbonamento”.
Prima partita al Celeste? “Non la ricordo. Forse un Messina-Marsala ricco di goal. Celeste fortino inespugnabile in cui, in un modo o nell’altro, le partite si vincevano. Poi, ho vissuto anche qualche sconfitta clamorosa come quella col Campania Puteolana. Al ritorno, pareggio per 1-1 al San Paolo di Napoli”.
E la prima trasferta? “Ufficialmente il famoso Benevento-Messina 0-1. Chiaramente a quindici anni non potevo avere la pretesa di scappare in trasferta. Mi accodavo a mio padre, trasferte quasi da esodo. Una volta a Cosenza eravamo in tre con un pulmino da nove posti. Poi, comprata la mia auto, ho iniziato a viaggiare con mia sorella. Eppure, alcune storiche trasferte mi mancano: quella di Modena ma anche di San Benedetto del Tronto”.
Eppure quelli erano anni in cui sarebbe stato più semplice scegliere le cosiddette strisciate: “Posso dirti che la prima mia squadra è stata il Torino. Un anno, in particolare, i granata avevano appena vinto lo scudetto e il mio desiderio era quello di poter avere una maglietta. Non esisteva il merchandising e mio padre, per non deludermi, aveva appena comprato quella della Juventus, dicendomi di non preoccuparmi perché tanto erano due squadre della stessa città. Una frase che io non mi sognerei mai di dire. Se hai una fede, quella deve restare. E comunque, devo essere onesto, anche oggi, quando vince il Torino, mi fa piacere. In seguito, ho realizzato che la mia città aveva una squadra di calcio e che quella dovevo seguire. Oggi lo faccio anche con 38° di febbre”.
Queste ultime parole, a chi è abituato a seguire il calcio dal divano, potrebbero sembrare fuori dal normale, direi quasi maledettamente folli. Oggi la realtà ci spinge in altra direzione: “Ancora mantengo quell’attenzione nell’andare allo stadio come se il Messina lottasse in categorie superiori o per mete più ambiziose. Quello che non ho perso negli anni è la tensione della partita domenicale, sia in D come in A”.
E questo è l’argomento che ti accompagna anche in trasferta: “Ma ci sono state anche volte in cui seguivo semplicemente con la radiolina la cronaca del buon Reno De Benedetto, che voglio ricordare, cercando di visualizzare in immagini sul campo le sue parole. Vedere le partite dal vivo è altra cosa rispetto al divano. Quando sono stato poco bene, soffrivo nel non poter seguire e dare il mio contributo. Sono uscito dall’ospedale nel giorno della gara con il Latina, ma ero ancora convalescente. Il mio amico Giovanni, che mi conosce bene, mi ha chiesto se ero sicuro di non voler andare. La domenica successiva ero già presente, non però in trasferta. Per quello è dovuto passare un pò di tempo, ma non troppo”.
Sei stato sempre uno strenuo difensore della maglia, a prescindere da eventi e proprietà di turno; sappiamo che questo non è sempre successo a Messina. Adesso forse sta cambiando qualcosa nelle sorti della squadra, giusto premio a chi come te ha sempre sostenuto: “Per me conta il Messina, conta la maglia; chiunque la indossi in quel momento è mio idolo per quella frazione di tempo. L’importante che la sudi dal primo all’ultimo istante. Per me non è frase fatta. Però, stiamo vivendo un periodo di grande speranza per il futuro, mai successo negli ultimi anni”.
Ma lui, Pietro Bianco, quella speranza l’ha sempre alimentata a prescindere da tutto, perché “il Messina è sempre il Messina”. Sempre in sella, caro Pietro, sempre in sella.