Storia, politica, società e, sullo sfondo, una cornice tutta ottocentesca: il difficile rapporto tra un padre ed un figlio in cui è impossibile trovare una vittima e un carnefice, in cui è difficile schierarsi, come spesso accade leggendo un buon libro, in cui il dissidio finisce per diventare identificazione.
Questo è emerso dall’incontro svoltosi presso gli accoglienti e intimi locali della libreria Doralice sabato 21 gennaio, quando Marco Mantello ha incontrato i suoi lettori (davvero parecchi) per discutere della sua prima fatica letteraria La Rabbia, un romanzo che, come lui stesso ci racconta, è una “tragedia satirica caratterizzata dal determinismo”, ambientata in un paese, come il nostro, in cui “i rapporti di potere e i vincoli affettivi pesano sull’ambiente lavorativo”.
Dal fitto dialogo con Alessandro De Angelis e Fabio Rossi, docenti di linguistica generale e storia della lingua italiana presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo cittadino, sono emerse tutte le tematiche centrali di questa “storia potente”, di questa “autobiografia al quadrato” (Rossi) dal finale talmente sorprendente che la tentazione, forte, è quella di ricominciare a leggere il romanzo nuovamente e non, come ironicamente ha commentato Mantello, “per provare a capirci qualcosa”, ma per riassaporare dal giusto (?) punto di vista il tutto, ripercorrendo, ancora, questa affascinante storia che ha dentro tutta la Storia di oggi.
Leandro Van Sandt è uno scrittore ormai al tramonto. Filippo è un figlio insicuro e inconcludente (“l’uomo dell’eterno rinvio” lo apostrofa il padre; “Un uomo vuoto. E senza personalità” lo racconta Mantello) che fuggirà a Berlino per realizzare il sogno di diventare genitore.
Poi, una Voce, una madre assente, una procace amante, un pitbull di nome Agave (già, i nomi, per i quali il professor Rossi parla di “gusto onomastico affabulatorio” ed “espressionistico” nella loro deformazione: Marta – Elena per l’amante, Strizzalocchio per un docente che “come […] tre quarti di italiani nutriva ambizioni letterarie” per le quali “avrebbe scambiato la sua intera produzione scientifica”, Sberlati e Scognafava per amici tutt’altro che simpatici).
Ma tutto questo sembra non essere altro che una cornice narrativa tramite la quale Mantello vuole (fortissimamente, come si evince dalle sue parole) indirizzare l’attenzione sulle tematiche scottanti che costellano tutto il romanzo: Genova e il G8, l’eutanasia, il dissidio che diventa identità, il conflitto generazionale visto come “aspirazione frustrata al potere”, il difficile rapporto con le forze dell’ordine, la Rabbia declinata in vario modo, percepita da Fabio Rossi addirittura come elemento “propositivo e positivo”, come “presa di coscienza di chi nutre rabbia”.
E poi la scrittura, rotta, franta, piena di anacoluti, un vero labirinto, a tratti, in cui il lettore è chiamato a cogliere i numerosissimi riferimenti intertestuali: dalla tragedia pre-euripidea alla letteratura russa (Dostoevskij, soprattutto, a cui Mantello si dice debitore) passando per l’epistolario di Thomas Mann, dalle tematiche pirandelliane alle riletture tragiche di Pasolini.
Quando il professor De Angelis presenta il percorso narrativo di Marco Mantello, approdato, dopo racconti, saggi e la raccolta di poesie Standards, alla casa editrice Transeuropa, emerge la vera genesi de La Rabbia: da un originario manoscritto di cinquecento pagine che recava il titolo La distruzione dell’angelo, l’autore ha assottigliato i dialoghi, accorciato i periodi, riletto a voce alta le parti “per immedesimarsi” nella vicenda, per raccontare “l’esperienza”, per puntare alla “trasfigurazione del reale” in una scrittura densa, “immaginifica”, che trasuda astio ovunque, seppur Mantello, rassicurando il suo pubblico, dice che no, lui non è poi così tanto arRABBIAto.