Silvia Plath, quale matrioska, strato dopo strato, si mette a nudo disvelando le profonde fragilità che l’hanno irrimediabilmente corrosa, attraverso questa spiazzante drammaturgia liberamente ispirata alla sua biografia e poetica pur se ricorrendo ad alter-ego italiana a dimostrazione della universalità della “questione femminile”. Una favola nera, ove i supposti principi azzurri hanno rivestito sembianze di nanetti, 6 bianchi e uguali, ricordati per via dei cibi che li hanno rappresentati, e l’ultimo, il fatale marito, colorato (e quindi differenziato dagli altri) con rimandi al gusto di un gelato al cioccolato e di una torta soffice e calda. Silvia, impersonata da una Alessandra Barbagallo di rara maestria, ha rievocato i suoi trascorsi tra telefonate parentali e del consorte, e, mano a mano, in un vortice ininterrotto di verbose e a tratti schizoidi confessioni, ha ricomposto, denunciandone forzature esterne e finzioni, quella sua tormentata esistenza. È stata oltremodo brava la monologante artista a vomitare pensieri semi-farneticanti e dismettere pezzi esteriori di vestiario e del suo complesso sé, rimanendo infine sola con i suoi sogni infranti. Quell’universo disegnato con connotati di perfezione si è sgretolato e quelle mura finto-fiabesche hanno assunto tratti di fredda reale prigione. La piece, con incipit volutamente stralunato ,che ha calcato la mano su tratti eccessivamente favoleggianti, ha posto Silvia, forse riduttivamente assurta in toto a simbolo delle lotte femministe a partire dagli anni 70,nel ruolo di vittima di un sistema che in Europa come in America, terra di provenienza dell’autrice ,aveva confinato le donne ,prima dei fermenti sessantottini ,in ambiente domestico ,rendendo loro estremamente faticoso esprimersi al di fuori ,in special modo in ambiti artistici .Il perfezionismo della poetessa ,acuito dalla educazione impartita dalla possessiva genitrice- onnipresente nella vita della figlia anche a cagione della prematura morte del consorte-aveva rafforzato in lei l’obiettivo di eccellere in ognuno dei codificati ruoli ,di moglie ,madre e artista ,non perdonandosi alcuna defaillance e imponendosi ritmi eccessivi. Certo il suo già minato sistema nervoso e la solitudine da lei orgogliosamente sopportata fino al crollo, al quale aveva di certo concorso l’abbandono del fedifrago marito, il poeta allora più famoso di lei, Ted Hughes, partito per lidi altri, ci consentono oggi di tracciare un quadro più complesso di quello che la rappresentazione vorrebbe restituire. Silvio Laviano ha comunque diretto egregiamente la mise en scene, che ha costituito ulteriore tassello fortunato nel prosieguo di questa felice stagione 2019/2020 c/o i Magazzini del Sale. Il Progetto S.E.T.A. (Studio Emotivo Teatro Azione) in collaborazione con Associazione Culturale Madè si è avvalso delle colorate scene e dei costumi e accessori anni 50’ di Vincenzo La Mendola; l’interprete si è mossa perfettamente a proprio agio in quella stucchevole ambientazione fra quelle romanticherie all’uopo caricate , come i tendaggi ,uno scatolone\ contenitore, dal quale sono venuti fuori i nanetti e una borsetta porta-lavoro colma di piccole allusive mele rosse. La lirica “Io sono verticale” è risuonata nella sua agghiacciante bellezza in apertura, in stridente contrasto rispetto ai surreali toni iniziali dello spettacolo. Molto intensa la protagonista mentre ha implorato di essere finalmente guardata… per poter far parte di quel quadro che si era con ostinazione rappresentata, infine bruscamente offuscato da un principe/carnefice che dopo essere salito in cima alla torre ha rifiutato il bacio salvifico alla bella addormentata, distruggendone la fiaba.
Io sono verticale. Le donne perfette finiscono…con la testa in un forno
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venerdì 27 Dicembre 2019 - 08:00
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